DAN AUERBACH, Keep It Hid (Nonesuch Records, 2009)

Se “Attack & Release” è stato uno dei dischi rock più soddisfacenti dello scorso anno, con quello smussare gli angoli e le asprezze in nome di un maggiore eclettismo e devozione alla cosiddetta forma-canzone, mettendo un attimo da parte il garage grezzo, era forse più lecito aspettarsi un seguito sulla scia del successo di pubblico e critica. E invece Dan Auerbach, chitarra ruvida e voce pregna di blues, decide di camminare da solo e di confermare l’ottimo momento con un inaspettato disco solista.

A conferma di questo stato di grazia, “Keep It Hid” allarga il raggio d’azione chiamando a raccolta amici e parenti e dirigendosi verso tutte le traiettorie preferite, senza ormai farsi più troppi problemi sull’utilizzo di basso, organo, cori, percussioni e via andare.
Auerbach esplora così tutte le strade che l’hanno portato ad essere ciò che è, in un viaggio attraverso quelle radici che nelle mani di molti porterebbero a partorire facilmente uno di quei dischi bolsi e noiosi per principio. Molti che non potrebbero però vantare una voce come quella del Nostro, tranquillone devoto all’espressione dell’anima come pochi altri, incapace di trattenere espressioni di vera estasi non appena sfiora le corde (della chitarra, del cuore, che differenza fa…).

Ancora più libero da qualunque tipo di costrizione, “Keep It Hid” parte dal folk di “Trouble Weighs A Ton” per poi passare a momenti più ruvidi che sanno dei cari vecchi Cream come “I Want Some More”, “Mean Monsoon” e la title-track, che non fanno rimpiangere né le note di Slowhand, né l’ugola di Jack Bruce, e né tantomeno i migliori Black Keys, che tornano spesso e volentieri con l’andazzo marziale della bellissima “When I Left The Room” e si mascherano da Jon Spencer in “The Prowl”, passando per la perfezione del nuovo corso di “Heartbroken, In Disrepair”.

Ora non c’è bisogno di chiedersi se questo disco sia una parentesi o l’inizio di un nuovo (anche se dire “nuovo”, sì, fa un po’ ridere) percorso, tant’è che la finale “Goin’ Home”, con quei suoni che sembrano ricordare l’ultimo walzer della Band, già dal titolo pare spiegarla tutta.
Inutile negarlo, questo è un disco che nasce classico – diciamo anche “vecchio” – ma che vince la sfida contro la muffa a testa alta: Dan vive nel suo tempo personale, con la sua barba e la sua musica che sa di America, di terra e del fruscio di amplificatori vintage che in realtà non hanno età.

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