Nick Cave & The Bad Seeds, Alcatraz (Milano) (28 maggio 2008)

Il rito si manifesta con il tuonante basso di Casey che incalza una schiacciante rivisitazione della torbida “Night Of The Lotus Eaters”. Le due batterie pestano a dovere introducendo la rabbiosa interpretazione di Nick che si materializza sul palco sufficientemente elegante, ancora baffuto e con quello sguardo sempre, almeno all’apparenza, torvo e imbronciato. Così come negli scorsi tour (“West Country Girl”), dunque, una partenza bruciante con lo stravolgimento di un brano teoricamente più tranquillo malgrado il nuovo “Dig, Lazarus, Dig!!!” sia tutt’altro che sprovvisto di potenziali aperture. Ma è inutile cercare un senso o una logica perché sarebbe tempo perso. Non è invece totalmente tempo perso la prevedibile, quella sì, presentazione di buona parte del nuovo repertorio, non completamente all’altezza dei precedenti album, ma con un impatto sul palco che si rivelerà molto al di sopra delle aspettative. Non solo i poderosi groove della titletrack e di una “Today’s Lesson” rilassata quanto il suo frontman sempre più loquace nei continui scambi di battute con le prime file e in lanci di asciugamani da vero piacione. Memorabile quando fintamente scazzato, al grido di una fan che rinfacciava di aver fatto mille miglia per vederlo, sminuisce… “Another woman crossed the ocean for me”.
La band, dal canto suo, salvo un paio di partenze un po’ arrangiate, è altrettanto rilassata e divertita. Warren Ellis al violino preferisce dei mandolini elettrici che avrebbero tutta l’aria di essere delle chitarrine giocattolo laddove hanno il gravoso compito di riempire con rumore i pochissimi spazi residui. Oltre a Harvey e Savage che si alternano tra piano e organo, infatti, anche Nick imbraccia l’elettrica.

Tra le nuove spiccano le suggestioni notturne di “Moonland”, le altalene ritmiche di “We Call Upon The Author” (sarà per quei break dall’aria vagamente techno, ma Nick rivela che nelle precedenti date il pubblico ci aveva ballato su) e un’emozionante “Lie Down Here & Be My Girl” con un cantato viscerale e contorto da raggelare il sangue. Ma Lazzaro non rinuncia a rivangare il passato risalendo fino al 1985. Un tuono apre la strada allo stormo, lui con una rosa poggiata sulle spalle si dimena, latra, urla, ammonisce, pervaso dall’infuocato sabba di “Tupelo”. Stesso effetto annebbiante di un’altra cavalcata luciferina e desertica lasciata al primo bis, “Hard On For Love” (“da Your Funeral…My Trial, alcuni dovrebbero conoscerla, altri no”, ed effettivamente è accolta con più freddezza) spietata nelle sue ritmiche al limite del tribale che tagliano irrimediabilmente l’aria. Un altro paio di classici degli irrequieti anni 80 nickcaviani sono ripescati da “Tender Prey”. C’è “Deanna”, chiassosa e coinvolgente, accompagnata da un prevedibile boato e c’è l’inevitabile “The Mercy Seat” in una versione dimessa e cimiteriale, quasi pervasa dalla saudade di “The Good Son” (arriverà anche il suo momento con la solenne “The Ship Song”), che procede tormentata in crescendo con la chitarra acustica di Harvey che rade le nubi plasmate da organo e violino. Senza mai esplodere.

Re Inchiostro è incontenibile. Si sposta dinoccolato da una parte all’altra del palco, ringrazia, interagisce con cenni di italiano “Mille fuckin’ grazie”, “Fuckin’ cosa?”“You’re fa-cki-ntastic” sparpaglia i fogli del leggio, finisce per dimenticare un passo della leggiadra “Nobody’s Baby Now” cui fa da contrappasso – seguendo come filo conduttore l’album d’appartenenza, “Let Love In” – l’oscurità di “Red Right Hand”. Sfondo inevitabilmente rosso sangue, luci basse, il suo magnetico timbro baritonale da chrooner noir, gli orrorifici presagi impressi dall’organo e le scioccanti esplosioni inseguite dalle urla disperate: uno dei picchi più alti dell’esibizione. Insieme all’irresistibile fiume in piena di “Papa Won’t Leave You, Henry” che rischia seriamente di far venire giù l’Alcatraz. L’asse Wydler-Sclavunos-Casey è infallibile, Savage e Ellis non saranno bellissimi a vedersi ma caratterizzano bene o male il suono con Harvey delegato al lavoro sporco, con precisione ed eleganza.

Il primo bis inizia con un po’ in sordina con una “Get Ready For Love” versione Grinderman priva del decisivo apporto delle controvoci nere che segue “The Lyre Of Orpheus” e il lungo siparietto con Cave che prima mette a tacere un logorroico urlatore e poi dileggia la platea colpevole di aver scazzato tempo e nota nel funereo Oh Mama! corale. Però finisce nel modo migliore con lui finalmente seduto, finalmente al piano che non sarà un piano a coda però fa il suo effetto, per la toccante “Into My Arms”.
Lo show si avvia ormai alle due ore, l’Alcatraz è solito chiudere molto presto, tuttavia, evitati ritardi in partenza (inizio puntuale poco dopo le 21) c’è il tempo per un secondo bis. Warren imbraccia il violino accantonando definitivamente il resto (tiene con se solo un flauto). Buon segno. Si riaccendono le luci su una sentitissima interpretazione di “Jesus Of The Moon”, uno dei pochi brani del nuovo album che non ha veramente nulla da invidiare alle vecchie ballad del repertorio. E si spegneranno alla fine della tempesta emotiva più adatta a spazzare via ogni ricordo nitido della serata, a rimuovere le impressioni più razionali e ragionate, “Stagger Lee”. Nick sembra come al solito a suo agio nell’immedesimazione tra i vibranti rintocchi del piano e gli echi di violino che scivolano nel parossismo di urla e fragori del drammatico furore conclusivo.
Ed è veramente la fine.

SCALETTA:

1. Night Of The Lotus Eaters
2. Dig, Lazarus, Dig!!!
3. Tupelo
4. Red Right Hand
5. Today’s Lnesson
6. Midnight Man
7. Nobody’s Baby Now
8. Lie Down Here (& Be My Girl)
9. The Mercy Seat
10. Deanna
11. Moonland
12. The Ship Song
13. We Call Upon The Author
14. Papa Won’t Leave You, Henry
15. More News From Nowhere
——————
16. The Lyre Of Orpheus
17. Get Ready For Love
18. Hard On For Love
19. Into My Arms
———————–
20. Jesus Of The Moon
21. Stagger Lee