Intervista ad Enrico Brizzi e i Numero6

enricobrizzi_e_numero6L’uscita del nuovo Ep dei Numero6, “Quando arriva la gente si sente meglio” , che – come ultimamente si fa – ha canali di distribuzione inusuali (tra gli altri si scarica gratuitamente sul loro sito) ci dà il la per pubblicare la chiacchierata tra formaggi e salumi fatta al Calamita con loro ed Enrico Brizzi, prima dell’esibizione correlata al progetto “Il Pellegrino dalle Braccia d’Inchiostro”.

Hai proseguito in questa esperienza del reading musicale, che avevi già fatto con i FridaX, cioè un progetto che nasce già inscindibilmente musica e parole. Pensi quindi che ogni buon libro debba avere una colonna sonora?

ENRICO: Ogni buon libro ha una colonna sonora nella testa di chi lo scrive sicuramente, poi dipende un po’ dalle sue abitudini se se la sente di portare in giro la sua storia mettendoci la faccia e cercando di lavorare insieme ad un gruppo che scrive una musica pensata apposta. Non mi sento di biasimare chi non lo fa, voglio dire, certe persone non hanno voglia di salire su un palco, dipende dal carattere. Però secondo me ogni libro in segreto ha una colonna sonora.

Quindi se un lettore “in cameretta” aggiunge ad un buon libro, che si basta da sé, una buona colonna sonora, quella giusta, può essere solo un di più, non un di meno….

ENRICO: Sì, a me è capitato molto spesso, credo a tutti, di leggere dei libri e di immaginarmi una colonna sonora che magari era diversa da quella che aveva in testa l’autore mentre scriveva. Credo che la morale di tutto questo sia che le parole e la musica in realtà sono molto più vicine di come vengono presentate dai giornali, per intenderci.

Allargando lo sguardo ad altri connubi artistici, mi raccontate qual è quello che adesso vi viene in mente come l’esempio perfetto di sposalizio tra musica e immagini?

MICHELE: Quadrophenia. Tommy. The Rocky Horror Picture Show. Sono tanti gli esempi di videoclip che hanno centrato nel segno, esaltando una musica ed esprimendo le sfumature che avevano bisogno di essere espresse tramite delle immagini. Mi viene in mente un video degli U.N.K.L.E., “Rabbit in your headlight”, in cui il protagonista viene investito in un tunnel, un video molto empatico, molto forte. Inoltre sono un fans dei R.E.M. e penso al video di “Everybody Hurts…”, per certi versi anche rivoluzionario, perché è un video che fornisce ulteriori letture ed emozioni ad una canzone senza coprirne il significato…. l’ingorgone, quello in autostrada, dove con una carrellata vengono messi in piazza i pensieri della gente con delle sovrimpressioni, è un video molto emozionante, quello secondo me è un vertice. Io però considero i video come dei mezzi piuttosto volgari, perché comunque sia molte volte vengono spesi grossissimi budget per dei video che poi una vita molto relativa e non hanno possibilità di essere visti se non una programmazione minima. Poi ci sono alcuni video che invece riescono ad essere arte.

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Circa la tua esperienza sulla via Francigena… il pellegrino di oggi legge le mail dopo i 30 km quotidiani? O magari scarica le foto nella chiavetta usb? Oppure il cammino porta a distaccarti anche dalla tecnologia?

ENRICO: Io sono abbastanza disordinato e disorganizzato dal punto di vista tecnico come persona, sono il classico che prima di partire dice: “Tutte le sere scaricherò la posta, le foto dalla scheda sul computer portatile, invierò tutto a casa”. Poi quando si è via ce se ne dimentica, ci si fa prendere dalla quotidianità del viaggio per cui hai altri ritmi, altre priorità, e quello che ti sembrava importante prima di partire dopo lo è molto meno. Poi ad un certo punto me ne ricordo perché di solito questi viaggi riesco a farli perché c’è un giornale che mi paga in cambio di articoli, quindi c’è qualcuno che me lo ricorda in maniera inequivocabile! (risate) Scherzi a parte, la verità è questa: il tempo del viaggio crea in te delle sensazioni, degli incontri, ma anche proprio delle priorità diverse, e quello che ti sembra fondamentale a casa, tipo che mezzogiorno sia grossomodo mezzogiorno, quando sei via sei in un tempo sospeso dai doveri. Il tuo dovere è arrivare a Gambassi Terme, da Gambassi Terme a S. Giminiano, da S. Giminiamo a Monteriggioni, da Monteriggioni a Siena e questa è pure corta e ti resta il pomeriggio per restare a Siena. Ti leghi molto di più a quello che ti detta la strada: ci sono tappe facili che diventano da incubo perché finisci l’acqua molto presto e tappe che si annunciano impegnative dal punto di vista fisico che invece ti ricordi solo per i begli incontri che hai fatto e ti passano invece molto agevolmente. Il bello del viaggio è proprio che vai in un altro mondo.

E i Numero6 come hanno fatto a “prendere” l’esperienza di Enrico del viaggio e metterla in musica?

MICHELE: Io e Enrico ci siamo conosciuti via mail, perché gli avevo fatto la richiesta, come ad altri scrittori, di collaborare al nostro ultimo disco con un intervento inedito, che commentasse una canzone… Subito non mi aveva risposto, poi un giorno, in ritardo perché il disco era già uscito, mi ha chiamato dicendomi: “Ho visto che c’è ‘sto disco, siete bravissimi, mi è piaciuto moltissimo, facciamo qualcosa…”. Io ho preso la palla al balzo, e gli ho chiesto di fare un testo su una musica: dopo due giorni c’era un testo della madonna che ci siamo emozionati a leggere. Quindi la collaborazione è nata molto spontaneamente. Poi ci siamo appassionati alla sua esperienza, perché lo consideriamo un pazzo… Collaborare a fare una colonna sonora di un romanzo ci ha entusiasmato tantissimo: abbiamo scritto dodici pezzi pensando agli input che ci dava giornalmente, poi abbiamo fatto una sessions di prove a Genova intensissima, e poi noi e lui ci siamo rimessi sulla strada di nuovo.

ENRICO: ci tengo anch’io a sottolineare che questa collaborazione è nata veramente da un istinto molto spontaneo che si ha più facilmente quando si è più ragazzini, che si tende a perdere, cioè: “Cavolo, questo qua è bravo!”. Magari dirselo tra uno scrittore e una band è più facile di dirselo tra due scrittori o due band, ma quello che comunque mi aveva colpito dei Numero6 era, oltre la musica, l’attenzione alle parole.

Voi come gruppo avete dovuto sottrarre piuttosto che aggiungere quando si è trattato di arrangiare le canzoni, o no?

MICHELE: Ti ringrazio per la domanda (risate). La sfida è stata semmai quella di fare un primo reading in Italia che fosse meno autoriale possibile, che fosse più pop-rock possibile, cioè scrivere delle canzoni che avessero le strutture del pop-rock con strofa, ritornello, ecc. inserendo Enrico come il cantante di questa band. L’obiettivo non era di quello di fare una colonna sonora di un lungo e bel monologo, una situazione a rischio “menata”, piuttosto quello di scrivere delle canzoni con Enrico, dove tra l’altro abbiamo chiesto anche a lui a volte di “adattare” le esigenze metriche dei testi.

ENRICO: Il concetto poco gradito e gradevole in Italia è quello di reading, perché spesso mi sono trovato a festival in cui il reading diventa un autore che legge brani del suo libro per intero, e il pubblico può andare molto spesso in bagno. Voglio dire: di solito è un momento di lettura intensissimo a cui segue un solo palloso di sax, uno-due, uno-due, e così per quaranta minuti fino a che non ci si suicida in sala. Qui il lavoro non è stato di far incontrare a metà strada lungo un ponte la musica e le parole, ma cercare di costruire delle canzoni che, rispetto alla classica canzone radiofonica, avrà qualcosa di recitato o interpretato oltre al cantato, ma stando dentro alle misure della canzone. Quindi il mio lavoro è stato molto più simile al lavoro di paroliere che ha a che fare con il numero di sillabe per verso.

Ma quanto sono contati i Massimo Volume in questo discorso? Quanto sono contati i Massimo Volume in generale?

ENRICO: Come clima bolognese respirato quando avevo 18 anni, tanto. Sia Mimi che Umberto Palazzo sono amici personali. Però conta di più lo stupore che in Italia i Massimo Volume siano un unicum, perché negli altri paesi è normalissimo vedere gli autori che leggono i loro testi con una band che è lì non al servizio dell’autore ma per suonare.

Visto che abbiamo parlato di “viaggio”, parliamo di “casa”. Mi descrivete Genova e Bologna oggi?

FILIPPO: Genova è una città che un po’ di anni fa sembrava promettere tanto ma che non ha mantenuto le promesse. Adesso è un momento molto noioso, ci sono realtà positive ma che in città non trovano terreno per manifestarsi.

MICHELE: Ha sempre avuto la tendenza ad osteggiare chi stava dicendo la sua, a non aiutarlo ad uscire per creare una scena, come quella fantomatica degli Anni Settanta molte volte citata a sproposito. C’è un’invidia latente, non ci si aiuta. Sono critico e sospettoso anche verso quelle situazioni in cui tutti si aiutano, tutti sono amici, come a Torino, forse una metà strada potrebbe aiutare.

ENRICO: La cosa strana è che girando l’Italia hai l’impressione di cose diverse che capitano in città diverse. Io invece l’impressione di una scena genovese molto vivida, come quando sono a Firenze a me non sembra così male, cazzo, mentre i miei amici fiorentini non fanno che lamentarsi. Però allo stesso tempo mi riconosco nelle parole di Genova anche per Bologna, una città in cui tante promesse non sono state mantenute ma dove non ci si smette mai di muoversi, non si sa quanto a proposito ma sembra che sia un pregio. Questo per dire che l’idea se in città ci sia una scena molto spesso dipende se la guardi da dentro la città o da fuori. Tanta gente arriva a Bologna a studiare,a vivere o semplicemente a farsi una serata convinta più o meno che Umberto Eco, Lucarelli e i Massimo Volume vanno tutti insieme al Covo. (risate)  E’ più sfilacciata la situazione.

Tieni uno spazio dentro di te per il “ragazzo immaginario”, per l’adolescente che ascolta i Cure, oppure bisogna dismetterlo come la tuta da ginnastica di 2a superiore?

ENRICO: Con le mie figlie cerco di essere un padre che spiega che se mettono il palchetto sotto la finestra per sporgersi è pericoloso, però anche un ragazzo immaginario. Diventare grandi e smettere di ballare sarebbe un guaio. Come figlio è quello che non mi è piaciuto nei miei genitori, che si siano divertiti tanto nel Sessantotto e poi a me abbiano rotto le palle perché facevo tardi la sera. Uno spera sempre di riuscire a tenere insieme le paranoie e le preoccupazioni con il “prova a divertirti e non stare paranoiato in casa a leggere il Resto del Carlino”.

(Paolo Bardelli)