STRINGS OF CONSCIOUSNESS, Our Moon is Full (Central Control, 2007)

Ha suscitato un discreto interesse tra gli addetti ai lavori questo stranissimo e a tratti inclassificabile progetto a firma “Strings of consciousness”, sorta di collettivo aperto o organismo transnazionale (le sue basi logistiche si snodano da Londra a Chicago, passando attraverso traiettorie che intersecano Parigi e Marsiglia) che vede coinvolti numerosi musicisti più o meno noti e spesso di estrazione culturale molto diversa. Citando soltanto alcune delle teste e dei volti più stimolanti di questa sorta di impossibile orchestra tentacolare si possono ricordare: Barry Adamson (Magazine, Bad Seeds), Scott Mcloud (Girls Against Boys), J.G. Thirlwell (Foetus), Andy Diagram (Two Pale Boys) e Philippe Petit (già fondatore dell’etichetta Big-Hop).

Ma la sfida più ardua è sicuramente rappresentata dal tentativo di fornire una definizione plausibile del suono di quest’album, eterogeneo quanto impalpabile e sfuggente. Si potrebbe iniziare l’ascesa (o l’ascesi) di questa montagna incantata, partendo dalla prima composizione, “Asphodel”, improntata ai canoni mobili di un paesaggismo elettronico dal passo sottilmente etereo e minimale in bilico tra Robert Wyatt, Brian Eno e Philip Glass, increspata dal vociare di piccole detonazioni robotiche in odore di Suicide e da una chitarra immaginifica quanto discreta (memore forse di John Abercrombie) che dissemina qualche sporadico ciuffo di vegetazione jazz in quella che altrimenti apparirebbe come una pietraia desolata e scricchiolante. In pezzi come “Cristalize It” o la bellissima e interminabile “Cleanliness is next to Godliness”, i monologhi di una voce a tratti strozzata e sbraitante si annodano al cerimoniale sconnesso di trame industrial che rimandano a Trobbing Gristle, Chrome e Killing Joke. Lo si potrebbe chiamare post rock, come da alcuni per altro è stato fatto, per il costante collocarsi di questa musica in un orizzonte oltre o aldilà del rock tradizionalmente inteso, per il suo sistematico scavalcare le barriere geografiche e i convenzionali confini di genere, eludendo i sentieri troppo sicuri delle tradizioni consolidate e approdando alla costruzione di un idioma musicale ibrido e spurio, ma altamente suggestivo. Di fatto una forma come il rock (inteso qui in tutte le sue ramificazioni dal post punk al noise), percepito forse come storicamente esaurito, viene fatto implodere e collassare su sé stesso in una disordinato incubo babelico di stili e labirinti sonori. Da qui forse anche il carattere enciclopedico dell’album.

Volendo infatti cartografare le influenze in tutta la loro estensione si potrebbe partire dal Pop Group per arrivare poi al Miles Davis di “Bitches Brew” e “In a silent way”, passando attraverso Sun Ra, i Pere Ubu, Current 93 e Tim Buckley, per arrivare quasi a sfiorare in certi passaggi Liars o Nine Inch Nails. Corpuscoli di jazz vagamente atonale liberati di volta in volta da trombe o sassofoni vanno a collidere contro ripidissime pareti di rumore bianco, raggiungendo in un brano come “Sonic Glimpses” (forse il migliore) la solennità e la sovrana bellezza di un cerimoniale notturno o di un requiem ombroso in cui a spiccare sono soprattutto i drappeggi di chitarra che lo avvolgono come una veste sacra, uniti al tribalismo slabbrato dell’instabile tappeto ritmico. Altrove , ad esempio nella brevissima “Defrost oven”, nella splendida “In Beetween”, o in “While sun Burns Out Another Sun”, la ricerca tende a riposizionarsi all’interno di strutture quasi classiche o addirittura cameristiche, svolgendo vertiginosi affreschi sinfonici che si schiudono come piccoli e dettagliati planetari o microrganismi ritmici via via più complessi e articolati, mentre le voci intessono una tela vibrante di parole e fitti simbolismi, ricordando tanto l’ultimo Scott Walker quanto David Sylvian.

Un disco insomma decisamente ostico, a tratti faticosissimo, ferocemente impenetrabile, che richiede un’attenzione spietata e che sembra quasi vietarsi o interdirsi ad un ascolto/consumo da I Pod, configurandosi come l’operare lento e silenzioso di una macchina indecifrabile, come un esoterico poema giunto da un futuro lontanissimo e irrintracciabile, ermetico quanto un geroglifico sumero, oscuro quanto una balbettante profezia apocalittica.

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