ANTELOPE, Reflector (Dischord, 2007)

Approda all’album di debutto la nuova formazione di Justin Moyer (già animatore di El Guapo e Supersystem), chiamata Antelope e attiva dal 2001, firmataria finora di un ep risalente a quattro anni fa e di un singolo doppio uscito nel 2004 che forse qualcuno avrà avuto modo di ascoltare. Il nuovo disco esce per il prestigioso e storico marchio washingtoniano Dischord e continua l’esplorazione di quelle sonorità in bilico tra rigore post-punk e funk destrutturato che avevano già caratterizzato i passati progetti di Moyer.

Quello che colpisce sin dai primissimi ascolti è l’asciuttezza delle trame compositive di questo terzetto, basate su rigidi reticoli elettrici dal profilo minimale e ricorsivo. A partire dall’iniziale ed eponima “Reflector” infatti la musica si perde in un fitto intersecarsi di superfici, piani e rette infinite, con la chitarra che disegna morbide curvature a colpi misurati di compasso e la sezione ritmica che sviluppa i suoi sillogismi ritmici con millimetrica precisione. Se la voce tradisce in alcuni episodi più ispidi (come “Dead Eye”) qualche probabile riverbero fugaziano, i rimandi più immediati sembrano riconnettersi soprattutto al post punk più algebrico di Talking Heads, Joy Division, Gang Of Four, Wire, Fall, forse Suicide (se non altro nell’approccio) o a progetti più recenti come Lungfish o, volendo, Rapture. Composizioni come “Mirroring” o “Flower” sembrano quasi innescare un interminabile flusso di aerobica mentale o un esercizio di autoipnosi, attraverso figure ritmiche che oscillano a velocità regolare e incantatoria. L’idea centrale di questi Antelope, lo la loro ossessione, sembra essere quella di una bellezza che può essere raggiunta solo attraverso una processo di riduzione e sintesi progressiva delle forme che non di rado sfocia in momenti di pura afasia o vuoto astrattismo meccanico (come negli algoritmi “Concentration” e “Collettive dream”, tautologici e inesorabili come la proposizione logica A=A).

L’impressione generale che se ne ricava, soprattutto ascoltando pezzi come “Contraction”, “Justin Jesus” (notevole) e “Wandering Ghosts”, è quella di un’unica canzone costantemente e puntigliosamente decostruita e riattraversata per tutta la durata del disco (venticinque minuti scarsi) da angolature e con velocità di volta in volta impercettibilmente differenti. Una sorta di composizione ininterrotta che si commenta e scompone in parti sempre più piccole e semplici. Infatti al di sotto di una veste sonora superficialmente compatta e volutamente monotona , si dispiega un lento e progressivo lavoro di erosione, fitto di sottilissimi tracciati e variazioni infinitesimali, che arriva fino alla trasparenza assoluta dell’ultima traccia, la già citata “Collective Dream”, inceppata nell’automatismo robotico di un ritmo asettico che sembra quasi sbriciolarsi e dissolversi nel nulla compatto e perfettamente rotondo del silenzio.

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