BONNIE PRINCE BILLY, The Letting Go (Drag City / Self, 2006)

Ho sempre provato un amore particolare per le creature partorite nel corso degli anni da Bonnie ‘Prince’ Billy: che fossero a firma Will Oldham, Palace, Palace Music, Palace Brothers e chi più ne ha più ne metta, si è sempre trattato di lavori unici nel loro genere. Era come se questo barbuto strano uomo del sud cambiasse pelle e attitudine a ogni moniker usato, capace di farti sprofondare con sè nelle più oscure e infernali profondità della terra come in “I See a Darkness” (il suo capolavoro, probabilmente insuperabile) o di farti ubriacare insieme al suo cantato per le sagre contadine, in attesa del momento sublime in cui la pro loco designa il vincitore del premio “zucca più grande” dell’anno.

Un lungo viaggio nell’atmosfera, questi sono sempre stati gli album precedenti a “The Letting Go”: che per la prima volta si sporca, si infetta, si mescola cercando di mescolare le anime del suo creatore. Senza riuscirci più di tanto, in realtà, ed è questo ad ammalare l’anima di chi scrive. Se è vero che l’album parte in quarta in maniera a dir poco splendida, con una “Love Comes to Me” che è figlia del folk più puro che memoria ricordi, è altrettanto vero che i tre pezzi che la seguono (“Strange Form of Life”, “Wai” e soprattutto “Cursed Sleep”) procedono lentamente, a strattoni, senza quel colpo di genio che dovrebbe rivalitarle ma, e questo è ancora più grave, senza che si percepisca una motivazione alla loro esistenza. E non è che le cose migliorino più di tanto – bè, forse un pochino sì in realtà – con “No Bad News”, “Cold&Wet” e “Big Friday”: tutte troppo programmaticamente legate allo standard, tutte ovvie, ricicli di canzoni con la c maiuscola del passato.

Bisogna aspettare “Lay and Love” e la sua perdizione disillusa per respirare aria a pieni polmoni: il country si fa meno standardizzato, l’ispirazione sale di livello notevolmente, le voci di Bonnie e Dawn McCarthy si fondono fra di loro in maniera a dir poco poetica. Eccolo, il cantaturore che si nascondeva e che invece, dio santo, le canzoni le sa ancora scrivere, eccome se le sa scrivere! “The Seedling” è un blues malato, contorto, spezzato dall’elettricità, da un piano elettrico fantasmatico e da violini maligni, in cui Bonnie Prince Billy fa il Tom Waits della situazione senza alcun timore. Finisce l’inferno, si cerca nuovamente la pace in “Then the Letting Go” e si capisce che quest’ultima è una chimera in “God’s Small Song”. Se “Called You Back” è una chiusura deludente, dopo un crescendo simile, fortunatamente l’ultima parola spetta alla ghost track narrata su due diversi piani dalla voce di Bonnie ‘Prince’ Billy. Che regala un album in fin dei conti deludente (si finisce in crescendo, ma restano sempre lì almeno sette canzoni tutt’altro che indispensabili) ma capace di qualche colpo di coda non indifferente. Basta? Assolutamente no. Fa sentire un po’ meglio dopo le paturnie iniziali? Sì.

Ps. Chi ha voglia e tempo si ripeschi i due recenti film indipendenti – entrambi visti al Festival di Torino – nei quali il nostro recita: “The Guatemalan Handshake” e “Old Joy” (molto bello il primo, ben più che piacevole il secondo).

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