XII Festival Internacional de Benicàssim (Valencia) (20-23 luglio 2006)

Teitur, live drawing di Kellie O’Dempsey – kellie@kellieo.com – fonte  
www.fiberfib.com

Prologo

Era arrivato all’aeroporto di Valencia pieno di speranze. Era stufo di sentire, anno dopo anno, i commenti entusiasti dei suoi amici. Voleva vivere sulla sua pelle quello che tutti gli altri dicevano di Benicassim. “Fanculo”, diceva, “ci vado da solo”. Sì perché quell’anno la scelta degli artisti non era stata avallata dagli amici di sempre, che hanno preferito rimandare l’appuntamento e cercare biglietti per altri festival, magari coi Radiohead in line-up. Era già stato in campeggio, non aveva paura di mettersi in mezzo ad una pletora di inglesi ubriachi con la sua timida canadese che aveva visto giorni migliori. Non gli importava. Era Benicassim l’importante. Il resto sarebbe stato un contorno aneddotico per quelli che quest’anno hanno passato l’evento. Compra il biglietto del pullman per il campeggio e nota di essere l’unico italiano nel raggio di chilometri. Il volo da Malpensa era pieno, sì, ma nessuno sembrava intenzionato a proseguire per il Festival Internacional de Benicassim. “Poco male, posso sfoderare il mio inglese”. Illuso. Gli inglesi facevano subito ghenga tra di loro, lasciando fuori i pochi francesi, i pochi tedeschi e l’unico italiano del plotone. Lui. Ma era troppo eccitato per deprimersi. Arriva al campeggio, monta la tenda in un angolo abbastanza isolato e comincia a passeggiare per la città. Una città che vive per il festival. Una città dove ti giri e senti puzza di FIB ovunque. E i ragazzi erano tutti lì per quello. Dalla spiaggia al Caprabo, il supermarket locale, dalla tabaccheria al bar delle brioche napolitanes. Tutto, in quei pochi chilometri quadrati, era girato con la faccia verso l’enorme recinto dei concerti.

Giovedì 20 Luglio

I giorni di mare annoiavano il ragazzo. Non era tipo da abbronzatura, lui. O meglio, detestava l’idea di perdere tempo al sole senza fare nulla. In più, aveva deciso di non portare l’I-Pod. Non tanto per la paura dei furti, quanto perché non avrebbe saputo che farsene. Insomma, poteva resistere due giorni senza musica in attesa dei concerti, no? Si sbagliava. Senza musica gli sembrava tutto troppo vuoto. Certo, essere lì da solo non aiutava. Avrebbe voluto fare conoscenza con qualcuno. Ma gli stranieri sembravano ancora più chiusi a riccio degli italiani. Gli italiani, semplicemente, non c’erano. Si sentiva un po’ solo e cominciava a chiedersi se il gioco valesse la candela. Insomma, non gli avevano mai detto che i giorni prima dei concerti erano così noiosi. Fortunatamente, però, l’ora X stava per arrivare. Aveva deciso di andare al recinto dei concerti giusto in tempo per vedere gli spagnoli Sr. Mostaza. La guida ufficiale del festival ne parlava come di un poliedrico gruppo pop tra Kinks e Cure. Mentre camminava verso la navetta per il recinto, finalmente ha l’illuminazione. Sente parlare italiano. “Che bello”, pensa, “stanno parlando di musica”. Si gira e vede due ragazzi. Uno ha gli occhiali e una maglietta della Jon Spencer Blues Explosion. L’altro è un lungagnone coi capelli corti e neri e blaterava qualcosa a proposito dei Mojave 3. Il ragazzo prende coraggio e gli parla. Non era la prima volta che venivano al festival e avevano deciso di andarci lo stesso, nonostante l’offerta degli artisti non fosse esaltante come quella degli scorsi anni. “Insomma”, diceva quello con gli occhiali, “l’anno scorso mi sono visto i Lemonheads e i Dinosaur Jr.” nella stessa serata. Aveva ragione. Ma chi se ne frega. Ormai erano lì e cercavano di sfruttare al meglio il loro tempo. Pure loro avevano letto bene dei Sr. Mostaza e volevano vedere cosa potevano essere. Purtroppo per loro, però, il gruppo spagnolo si dimostrava niente di che. Anonimi laddove non terribilmente banali. Molto meglio Teitur, anche se nessuno dei tre si poteva dire esaltato. Peccato però. Il nostro ragazzo aveva cominciato ad esaltarsi per quel cantautore delle Far Oer a metà tra Sondre Lerche e Josh Rouse. I due italiani convenivano che sì, non è male, ma è ancora troppo grezzo per dire qualcosa di significativo. Certo è che, nonostante si sia presentato sul palco da solo con un’orchestra di diciotto elementi, sia scampato dai territori della noia. Ma poco importa, pensava il ragazzo, è talmente giovane che si rifarà al più presto. Il talento c’è.

Tom Verlaine non aveva certo bisogno di presentazioni. Il ragazzo sperava in un set elettrico degno dei Television. Sognava chitarre nervose su ritmiche serrate e i soli di chitarra di “Marquee Moon“. Desiderava una sicura scossa ad una serata che era cominciata un po’ in sordina. E’ quindi stupito dalla scelta dell’uomo che anni fa cambiò la storia della musica di presentarsi solo con la sua chitarra e l’aiuto di tal Jimmy Ripp. E ancora più stupore suscita il set. Un po’ John Fahey, un po’ Jim O’Rourke, un po’ Six Organs of Admittance. Sicuramente fuori contesto, ma di un fascino disarmante. Strano vedere mille e più di mille persone sedute e in piedi ad ascoltare in religioso silenzio. “Fossimo stati in Italia”, diceva quello con gli occhiali, “l’avrebbero preso a bottigliate. Qui tutti rispettano tutto. E’ bellissimo”. Ed aveva ragione. Il fascino di quel chitarrismo liquido vagava nell’aria senza che nessuno potesse interferire. Purtroppo però, la risposta dei Sunday Drivers rischiava di rovinare tutto. Un pop rock banale che più banale non si può. Una vuota copia dei Coldplay. Ma non quelli di “Parachutes” o “A Rush Of Blood The To Head“. No. Magari. Ma i Coldplay bolsi ed autoriferiti di “X & Y“. Da dimenticare nella speranzosa attesa di Howe Gelb. Anche quella volta il contesto non era ottimale, ma nonostante il coro gospel degli ‘sno Angel, mr. Giant Sand riusciva a mettere su un set di una classe immensa, senza risparmiarsi in schitarrate d’antan degne degli esordi Paisley Underground dei bei tempi. Molta poca festa, però. “Ti ricordi?”, diceva il lungagnone al quattrocchi, “l’anno scorso c’erano i Posies e i Polyphonic Spree”. “Già”, rispondeva l’altro, “speriamo che almeno le Scissor Sisters non deludano”. Già. Si sperava. Peccato però che anche loro, chiamate a rapporto per scuotere le stanche membra di un adorante pubblico inglese, abbiano offerto un set sciapo e assolutamente poco divertente. Da un gruppo così – in sintesi: Abba + Bee Gees + Queen + ironia – si presupponeva una sana dose di divertimento spensierato. Niente di tutto questo. Musicalmente anonimi e poco coinvolgenti. Per tutti tranne che per gli inglesi, ma il ragazzo sapeva meglio di molti altri come andavano queste cose.

Venerdì 21 Luglio

I due ragazzi – quello con gli occhiali e il lungagnone – l’avevano invitato ad andare in spiaggia con loro e i loro amici. In tutto erano una decina. Venivano tutti dal nord Italia ed erano già stati lì almeno una volta. “Cioè, ti rendi conto?” gli diceva uno: “L’anno scorso, il primo giorno, ci sono stati gli Yo La Tengo. Che non importa che abbiano fatto schifo. E’ l’idea che conta. Stasera quale sarà il top della serata? I Pixies. Ma diciamo che è il top del festival e basta”. Non capiva questo snobismo. Anche perché per Frank Black e soci, il nostro ragazzo non ci aveva mai fatto una malattia. Certo, gli piacevano, ma non avrebbe mai percorso l’Europa solo per il piacere di vederli. Era molto più interessato agli Echo & the Bunnymen. Insomma, tra un bagno di sole e un gelato sul lungomare, la mattinata va via che è un piacere. Ma attorno alle quattro, il ragazzo si alza per andare a vedere i concerti. Voleva vedersi tutto quello che riusciva a vedersi. Voleva scoprire qualche gruppo nuovo. E l’aveva scoperto. Eccome.

Succede, infatti, che il primo concerto della giornata sia quello dei Dionysos. Una band francese che non riesce a definire. Rock? Metal? Punk? Pop? Prog? Tutto e niente. Gli venivano in mente Goran Bregovic, Mars Volta, Beirut, Indochine, Peter Gabriel, Iron Maiden, Manu Chao, Mano Negra. Di tutto e di più. Il palco dell’Escenario Fiberfib era diviso a metà. Da un lato loro, dall’altro l’orchestra. E per l’ora di concerto i francesi non hanno fatto altro che saltare, zompare, dannarsi l’anima e sudare. Le loro canzoni erano stranissime, complicate, potenti, energiche, sublimi. E poi il ragazzo non aveva mai visto uno stage diving lungo un centinaio di metri da parte del cantante di un gruppo. Un’esperienza notevole che non viene bissata dai Babyshambles, gruppo che salta senza nessun problema per poi farsi trascinare dall’ingenuo pop elettro-acustico degli spagnoli Garzòn e dalla potenza tellurica degli invero abbastanza impalpabili Walkmen. “Buffo”, pensava il nostro amico, “Gli inglesi sono qui per loro. Ci saranno tremila persone che li stanno esaltando ma a me ricorda uno che vuole cantare come Greg Dulli solo per rendere interessante una musica che non mi dice un cazzo.”

Mentre si stava spostando sul palco piccolo, dove di lì a poco avrebbero iniziato gli Ordinary Boys, incontrava il ragazzo con gli occhiali. Gli diceva che i Babyshambles avevano fatto schifo, quello sì, ma che ad un certo punto è salito sul palco Shane McGowan dei Pogues per fare “Dirty Ol’ Town”. Insomma. Un’occasione persa che un po’ fa bestemmiare il nostro amico. Ma non importava più di tanto. C’erano altri concerti da vedere e gli Ordinary Boys, dal vivo, sono divertentissimi. Si presentavano in calzoncini corti dicendo: “Ma cosa ci fanno gli altri con la giacca di pelle a luglio?” e si lanciavano in un concerto pop coi contro. Peccato che di lì a poco avrebbero iniziato i Futureheads. Una sopresa. Perché la band è il classico gruppo che al nostro ragazzo dovrebbe far schifo. Eppure piacciono. Piacciono i coretti. Piace il tiro punk-buzzcocksiano. Piace il fatto che facciano trecento canzoni in quaranta minuti di concerto. Insomma. Piace. E diverte. Un po’ l’opposto dei Pixies, purtroppo. Ok che il nostro amico non ci faceva una malattia. Ma già che c’era, voleva vederseli dal vivo. E per venti minuti ce l’aveva anche fatta. Ma poi, per colpa del pogo e della pressione del pubblico che ha mandato in frantumi una barriera protettiva, Black e soci han deciso di andare via per mezz’ora. Tempo di rimettere a posto la barriera, di far arretrare la gente e, sopratutto, di farla calmare e il concerto è ricominciato. Peccato però che l’umore del ragazzo era ormai completamente guastato. Incazzato a morte coi Pixies, li ha lasciati al loro divismo per andare a gustarsi, assieme a quattro gatti, Chris Brokaw. Un ragazzo timido che si è ritrovato a ringraziare i pochi presenti con un concerto da antologia. Un indie-rock chitarristico figlio del Paisley Underground – Thin White Rope, Dream Syndicate – e un cantautorato tra Pedro the Lion e Evan Dando (“My Idea”, scritta da Brokaw, era in “Baby I’m Bored” del biondo Lemonheads). Alla fine sembrava di ascoltare Neil Young. La furia elettrica della sua chitarra faceva saltare i timpani, ma dopo la delusione dei Pixies non poteva chiedere di meglio. Un concerto memorabile, il primo vero concerto memorabile del festival. Secondo solo agli Echo & the Bunnymen che, rispettando le sue aspettative, tiravano fuori un concerto pazzesco. Ian McCulloch immobile, occhiali da sole (all’una di notte) e sigaretta ha più carisma di tutte le bestie da palcoscenico – un nome: Dave Gahan – che si dannano come dei disperati per attirare l’attenzione del pubblico. E le canzoni sono fantastiche. Nella scaletta non potevano mancare “The Killing Moon” e “The Cutter”, oltre ad una cover da brivido di “Roadhouse Blues” dei Doors. Poteva essere a posto così, il nostro ragazzo. Ma ha preferito aspettare per vedersi gli Strokes. Che dal vivo ormai sono una certezza. Ovvero la certezza di non essere affatto una live band. Lo scazzo per eccellenza, sembrava che ognuno suonasse per conto proprio anche se le canzoni – magicamente – uscivano fuori alla grande. Sopratutto i pezzi di “Is This It”. Ma la nottata non era finita. Erano le 2.30 del mattino e il ragazzo voleva aspettare Nathan Fake, segnato sul programma alle 6.35. Tra Red Bull, Coca Cole, birre, Tiga e dj set vari, il ragazzo aspetta fino alle 7, ma Le Hammond Inferno è ancora lì. E’ stanco, cammina per inerzia e non sarebbe riuscito a godersi Nathan Fake nemmeno con una dose suprema di caffeina. Normale quindi andare a letto mentre tutti gli altri continuavano a ballare al ritmo technologico di Michael Meyer, che ben pensava di continuare fino alle 10.

Sabato 22 Luglio

Una giornata da gambe spezzate, ecco cosa attendeva il nostro ragazzo. Si era riposato all’ombra delle palme sul lungomare di Benicassim perché sapeva che si sarebbe dovuto dar da fare, quel pomeriggio. C’erano molte cose interessanti e non voleva perdersene nemmeno una. A cominciare dai Santi Campos Y Los Amigos Imaginarios, spagnoli che fanno pop ma decisamente migliori di Sunday Drivers e Sr. Mostaza. Leggerini e molto inglesofili, sono un ottimo sottofondo prima della sorpresa del pomeriggio. I Nadadora infatti, facevano quel tipo di musica che al nostro amico ha sempre fatto sognare. Quel pop chitarristico rarefatto e dilatato nella tradizione di certe band americane come Galaxie 500 o Luna. Cantano in spagnolo ma sono energici e passionali e hanno canzoni bellissime. Assieme a lui arrivano anche i due amici conosciuti sul posto, che condividono il suo giudizio e vorrebbero che di gruppi del genere se ne parlasse più spesso. Tutto l’opposto di Matt Elliott invece. Mentre osservava gli ultimi minuti del suo set, sospeso tra l’elettronica dei Third Eye Foundation e il folk maledetto delle sue prove soliste, il ragazzo si chiedeva come mai l’organizzazione abbia deciso di farlo suonare al Fiberfib alle cinque del pomeriggio. Una rottura di coglioni inenarrabile in parte scacciata dalla canzone d’autore acidula di Ainara Legardon. Spagnola anche lei, collaboratrice di Chris Eckman dei Walkabouts, la Legardon ricordava al ragazzo una versione molto più affascinante di Thalia Zedek. La chitarra tagliente è quella, le distorsioni da catacomba pure. Sicuramente meglio delle Organ, che dal vivo erano addirittura peggio che su disco. Immobili, statiche, totalmente prive di un qualsivoglia carisma. Il ragazzo e i due amici – quello con gli occhiali e il lungagnone – osservano, vagamente schifati, una decina di minuti di set per poi andarsene. Non va meglio col Columpio Asesino. Ennesimo gruppo spagnolo. Quella volta però non era pop, ma una specie di art-rock che urla da tutte le parti la sua volontà di essere Oneida. Due palle anche lì. E allora ci riprovano tutti assieme appassionatamente coi Calla, che almeno le canzoni le hanno. E invece no. Sembra che dal vivo manchi sempre qualcosa, ad Aureliano Valle & soci. Forse da quando hanno mandato via il chitarrista bis c’è un buco incolmabile.

Mentre si stavano dirigendo verso l’Escenario Verde, i tre ragazzi pensavano alle canzoni degli Smiths che Morrissey avrebbe potuto fare: “La mia preferita è ‘Bigmouth Strikes Again'” dice quello con gli occhiali: “Non so se la farà, sai?” replica il lunganone “del resto, io spero sempre in una ‘Please Please Please, Let Me Get What I Want Thise Time'”. Il ragazzo, dal canto suo, non sapeva cosa pensare. La sua canzone preferita degli Smiths era “Panic” ed era quasi certo l’avrebbe fatta subito. La platea era gremita e un enorme Oscar Wilde la guardava da dietro al palco. La cassa della batteria aveva una bandiera italiana, pegno d’amore verso Roma. Saliva sul palco con una camicia gialla e tutta la band in divisa con la maglietta di Playboy. Il pubblico era in delirio e tutti si stavano già un po’ commuovendo ed attaccava – puntuale – le prime note di “Panic”. Il pubblico urlava “Hang the dj hang the dj hang the dj”, ma qualcosa non andava. A parte la sua presenza scenica, la voce dello Stephen Patrick sembrava un po’ giù di corda e il gruppo era di un anonimo imbarazzante. Poca verve. Una delusione mai vista. Non basta “Girlfriend in a Coma” e altri ripescaggi dal repertorio che fu, oltre a lanci di camicia verso il pubblico (non prima di essersela passata nelle mutande). Le lacrime di gioia lasciavano spazio alle lacrime di delusione per una grandissima occasione mancata. Eppure il ragazzo ci aveva sperato. E se lo diceva mentre camminava verso la tenda dove di lì a poco si sarebbe esibito Lou Barlow. Da solo, in acustico, l’occhialuto ex Dinosaur Jr., ex Sebadoh, ex Sentidroh, ex Folk Implosion, ex New Folk Implosion si lanciava in un conerto per pochi intimi. Commovente sul serio perché disseminato di problemi tecnici che non solo non innervosivano il pubblico, ma lo rendevano complice della performance, con un Lou Barlow che non faceva che ringraziare mentre pizzicava le corde della sua chitarra: “Buffo. L’anno scorso sono venuto qui con la band più rumorosa del festival (i Dinosaur Jr., ndH) e ora sono qui a fare il concerto più delicato del festival” diceva mentre scattava una foto del pubblico. “Forse ci vorrebbe roba del genere ogni sera”, mormoravano i due ragazzi mentre stavano andando a vedere il quarto d’ora di Mojave 3 prima di buttarsi nella bolgia per Rufus Wainwright. Un artista che il nostro ragazzo aveva già visto ai tempi, con una band e tutto il resto. Aveva messo su quasi tre ore di spettacolo ad altissimi livelli ed era curioso di vedere come se la potesse cavare da solo. Beh, anche lì, solo con un pianoforte o una chitarra, Rufus ha dimostrato di essere un assoluto fuoriclasse. Tiene il palco come pochi altri, ha una classe innata e un pacchetto di canzoni tra le migliori del pop contemporaneo. E poi ha una voce pazzesca. Della serie che potrebbe davvero cantare l’elenco del telefono e ci sarebbe gente in lacrime ai suoi piedi. Figuriamoci quindi quando accenna gli accordi di “Hallelujah”. Lacrime, tante lacrime, lacrime ovunque per poi lasciare spazio all’esaltante power-pop dei Nada Surf che i tre ragazzi – assieme al gruppo di amici che era nel frattempo arrivato nella zona dei concerti – preferiscono ai Franz Ferdinand.

Pensavano di andare sul sicuro e di vedersi un concerto per pochi. Del resto, i Franz Ferdinand stavano suonando sull’altro palco, no? Sbagliato. Gli spagnoli si confermano grandissimi amanti della musica pop ed occupano la tenda in ogni genere di posto. Fortuna che i nostri erano ben messi dopo il concerto di mr. Wainwright. Il pubblico salta, scalpita, strepita, canta, urla, si esalta. E si sentono tutti benissimo. Quanta gente verrebbe ad un concerto dei Nada Surf, in Italia? Si domandano i nostri amici mentre Matthew Caws e Daniel Lorca spaccano tutto e tutti con una scaletta della madonna che attinge da ognuno dei quattro album della loro carriera. Ci si commuove su “Inside of Love”, si poga su “Hi-Speed Soul” e ci si perde la testa sui ripescaggi da “High/Low” e “The Proximity Effect”. E dopo basta. Il ragazzo per oggi ha dato e non ne vuole più sapere di saltare e camminare qua e là per vedere concerti. Non c’era più niente di interessante e non aveva assolutamente voglia di aspettare Dj Hell. Stava andando avanti senza soste da dieci ore e aveva bisogno di bere, di mangiare, di biologizzare e magari poi vedere anche un pezzo di Ms John Soda. Che rispetto al vecchio live che aveva visto, avevano raddoppiato i volumi stupendo oltre ogni immaginazione. Stupefacente, no? Peccato che i piedi reclamassero pietà. E mentre gli altri facevano finta di niente e si lanciavano nella tenda di Hell, il nostro protagonista se ne andava con tranquillità e mollezza verso il campeggio.

Domenica 23 Luglio

“Come ogni anno, l’ultimo giorno è il giorno più fiacco. Almeno ci sono i dEUS“. Il ragazzo con gli occhiali sapeva quello che diceva mentre stava guardando le onde infrangersi sulla spiaggia di Benicassim. C’era molta più gente rispetto all’anno scorso e si vedeva benissimo. I posti più ambiti, quelli all’ombra, erano occupati già dalle prime ore del mattino e stare troppo sotto al sole era un rischio. Infatti, molti dei loro dialoghi si svolgevano a mollo nell’acqua. Comunque era vero. Giornata fiacca, quella di domenica. C’erano il gruppo che il ragazzo forse odiava di più in assoluto – i Depeche Mode – e altri di cui non gliene poteva fregare di meno, come i The Rakes, gli Editors o i She Wants Revenge. Infatti, entrando nell’area concerti quello che più lo colpiva non era la nenia mancuniana degli inglesi, ma il lamento da cantautore proveniente dal Vodafone FIB Club. Si trattava di Secret Society, autori di un disco – “Sad Boys Dances When No One’s Watching” – che aveva colpito molto il ragazzo. “Su disco sembra il Bonnie Prince Billy di Spagna, dal vivo invece sembra una versione incazzata di Conor Oberst” diceva ad una ragazza del gruppo di amici che gli chiedeva cosa mai facesse. Giusto il tempo di prendersi una Coca Cola ghiacciata (c’erano pur sempre 40°) e andare al Fiberfib, dove si sarebbe esibito Yann Tiersen. La tenda era piena. Da parte del nostro amico, c’erano delle aspettative. Si aspettava un set etereo ed affascinante. Atmosferico, insomma. Invece la band ci da dentro. Il concerto inizia come se fosse una indie band e continua su traiettorie molto più vicine al post-rock che non allo strumentalismo da colonna sonora cui il francese lo aveva abituato. Non bastano le canzoni al violino o i ripescaggi da “Il favoloso mondo di Amelie“, Yann Tiersen annoia. Come quasi tutti i concerti visti quell’anno ad uno stage Fiberfib davvero deludente. Molto meglio scappare per buttarsi nella danza modernista dei Madness. Attaccano – ma che strano! – con “One Step Beyond” ed è la festa. I Madness erano e sono e sempre saranno uno dei gruppi inglesi più inglesi in circolazione e il loro ska è irresistibile un po’ come i loro vestiti e le loro pose. “E pensare che noi abbiamo gli Statuto. Siamo proprio il culo del mondo” interviene il divertito lungagnone.

La platea dell’Escenario Verde cominciava quindi a popolarsi. Da lì a poco sarebbero saliti sul palco i Depeche Mode. “Sai che culo!” commentava il nostro protagonista, stizzito dal delirio popolare e dalle inutili chincaglierie che fanno bella mostra della loro vacuità sul palcoscenico. Ma il peggio succedeva all’attacco del concerto. La canzone non era importante, una a caso tra quelle inutili. Questo perché, dal vivo, i Depeche Modo sono terribili. Dave Gahan è orrendo, si muove in maniera convulsa e ridicola con un carisma che nemmeno lo sfigato bombolo delle elementari. Roba che Ian McCulloch – o anche Liam Gallagher, per dire – lo distrugge con una sola occhiata. Martin Gore è l’ultima persona al mondo che dovrebbe suonare una chitarra elettrica (o cantare, o fare qualunque cosa che non sia vergognarsi) e Andy Fletcher pigia bottoni a caso dal bancone del supermercato che ha messo sul palco. Ridicoli. E orribili. Brutti da vedere e da sentire.

Schifato, il nostro amico se ne va a vedere gli Art Brut, riconoscendone la genialità. Sono un gruppo punk. Tiratissimo, coinvolgente ed ironico. Questo perché il cantante sembra un misto tra i Morrissey che non c’è più e Mark E. Smith, il tutto virato in Monty Python. Le canzoni sono più aggressive, ma mantengono la loro genialità pop. Genialità che raggiunge l’apice su “Art Brut: Top of the Pops”, quando il cantante si fa passare il programma di Benicassim e recita la frase “Top of the Pops” su tutti i gruppi del festival. Dieci minuti conclusivi di felicità e divertimento per uno dei gruppi inglesi più affascinanti e coinvolgenti degli ultimi cinque anni. Forse il momento più alto della serata. Perché i Placebo sono un gruppo che provoca indifferenza. Questo nonostante il loro set sia stato comunque dignitoso. Scaletta orribile ma ben suonata. Ed era strano considerando quante volte si era letto di concerti penosi perché Brian Molko e soci non sapevano tenere in mano una chitarra. Magari erano effettivamente migliorati. Ma non importava più di tanto. Perché dopo avrebbero suonato dEUS.

Per il nostro amico, i dEUS rappresentavano una delle poche certezze del panorama musicale contemporaneo. Amava i loro dischi e le loro canzoni e non vedeva l’ora di appagare pienamente la sua sete di live con un concerto sopra la media. Attesa ripagata. Questo perché i dEUS sono una band di classe e livello superiore e hanno delle canzoni fantastiche. Il concerto è durato un’ora ed è stato un greatest hits della band a velocità supersonica e coinvolgimento massimo. Da “Pocket Revolution” ci sono state le sfuriate elettriche di “If You Don’t Get What You Want” e “Bad Timing”, la strumentale – e bellissima – “Sun Ra” e la conclusiva “Nothing Really Ends”. Per il resto, tra una “Little Arithmetics”, una “Istant Street” da perderci la testa e una “Sudds & Soda” da fine del mondo con le sue citazioni ai Beastie Boys di “Sabotage”, si è trattato di uno dei concerti del festival e il nostro amico – assieme al lungagnone e l’occhialuto – non ha fatto altro che cantare ed urlare. “Ci voleva una conclusione degna” dice il critico occhialuto “per il resto, si è trattato di un festival un po’ deludente”. Già. Si preferisce chiosare sul concerto dei The Rakes. Inutili e incapaci di provocare una minima emozione. “Sai, nell’area stampa si aggirano i giornalisti dei NME, cinquemila persone per i Rakes è colpa loro”. Già.

Epilogo

Il ragazzo era al Gate dell’aeroporto di Valencia. Stava aspettando il volo che l’avrebbe riportato a Milano Malpensa. Guardava gli aerei partire e gli inglesi andare verso le uscite per Londra. I due ragazzi conosciuti quasi per caso erano rimasti delusi dal festival, questo perché l’anno prima avevano visto Dinosaur Jr., Lemonheads, Yo La Tengo, Nick Cave, Oasis e chi più ne ha più ne metta. Forse era solo arrivato con un anno di ritardo, ma quel Benicassim era comunque un’esperienza da fare. Perché si tratta di un festival bellissimo. Di un’atmosfera impagabile e di un qualcosa che a parole forse non riesce a farsi capire. Bisogna viverlo per capirlo e per non farne più a meno. Line up a parte.