BETH ORTON, Comfort Of Strangers (Heavenly / EMI, 2006)

Ogni tanto capitano bei dischi a cui non si riesce ad affezionarsi. Non aiuta ascoltarli più e più volte, né serve adorare tutto ciò che l’artista ha fatto finora: una parte irrazionale di te scalcia, tira indietro, si rifiuta.

È quello che succede a me con “Comfort of strangers”, il quarto album di inediti di Beth Orton: quattordici bozzetti folk dai quali è completamente sparita l’elettronica. Un disco di chitarra acustica, pianoforte e una batteria solleticata con gentilezza. Musica che porta con sé paragoni importanti come Sandy Denny (“Countenance”), Carole King, Emmylou Harris (citata fin dal titolo in “Pieces of sky”) e le più belle voci del cantautorato al femminile degli anni ’70. Folk moderno, non fuori dal tempo come quello del ritorno di Vashti Bunyan, tanto per intenderci: le canzoni sono mosse da stacchi ritmici imprevisti tra strofe e ritornelli (“Rectify”), vibrano di colori e arrangiamenti perfetti (il ricamo di pianoforte in “Shadow of a doubt” è semplicemente meraviglioso, così come l’intermezzo strumentale in “Conceived”), sembrano più serene rispetto al passato.

E allora, direte voi, cosa c’è che non va, cosa impedisce di amare questo disco? Forse l’aver rinunciato alle sovrastrutture electro ha tolto a Beth Orton il suo carattere distintivo? Non è quello il punto: la capacità di scrittura c’è sempre stata, e non scompare a seconda degli strumenti usati; il problema, forse, sono proprio le canzoni. Alcune meravigliosamente belle, mentre altre si dissolvono nell’aria come bolle di sapone non appena si finisce di ascoltarle. Non brutte, ma un po’ inconsistenti.

Alla fine si torna sempre ai brani migliori, e a quelli non so più rinunciare: l’uptempo pianistico di “Worms” (immaginate Fiona Apple che scaglia la sua amarezza verbale su uno spartito di John Lennon…), la dolce discesa delle dita sulla chitarra in “Shadow of a doubt”, le apparizioni improvvise dell’Hammond tra le note empatiche della title-track, l’intensità travolgente della voce (che il tempo ha reso più scura) in “Heart of soul”, la malinconia di “Feral children” e il pianoforte sfiorato di “Pieces of sky”…

Il resto c’è, ma lo ascolti e scivola via; torni ad ascoltarlo, e non si fa afferrare. Ed è un peccato non potersi innamorare di tutto quello che vedi o che senti. L’ingresso di Beth Orton nell’Olimpo delle più grandi è rinviato.

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