CELEBRATION, Celebration (4AD, 2006)

Un difetto persistente e spregevole dell’essere umano è quello di ostinarsi a pressare il carbone talmente forte da tramutarlo in diamanti. Ne parlano i Celebration, di Baltimore ma newyorkesi doc, per via dell’oppressione e dell’oscurità melanconica che si propaga dalle casse non appena inserisco il disco nel lettore. Le casse diventano letteralmente grattacieli altissimi e agorafobici.

Il suono complessivo è una miscela improbabile di new-wave, no-wave e dark-wave, condita e rallentata da una buona dose di indierock anni ’90. Come se gli Yeah Yeah Yeahs del primo album si trovassero a fare i conti con delle tastiere sincopate, degli organi snervanti e con loro stessi nella versione acustica del nuovo album. Katrina Ford – una cantante finalmente bruttina – rende l’atmosfera ricca e satura d’ansia e depressione. David Bergander, il batterista, si ostina a battere le pelli con un certo nervosismo delicato e intermittente. Ad accompagnarli, come un piccolo freak dai piedi prensili, Sean Antanatis con una chitarra in mano e una serie di organi e tastiere suonati con le rimanenti estremità del corpo (posso confermare dopo averli visti dal vivo. L’organo lo suona coi piedi scalzi mentre strimpella la chitarra senza battere ciglio). Completa l’apparato alienante e stratificato qualche accenno trasognato di stampo Blonde Redhead – pochi, in verità, ma sufficienti perché li si noti, in “Diamond” soprattutto. Ma prima di continuare a scriverne devo prendere fiato e scrollare la testa. Scusate.

La copertina disegnata da Katrina (sulla mia c’è anche uno sghiribizzo nevrotico fatto con una biro nera che difficilmente riuscirò a spacciare per un autografo) rispecchia fedelmente l’idea straniante del contenuto. I testi paratattici, semplici ma ermetici, rendono il lavoro ancor più incomprensibile, anche se non mancano insulti e improperi lucidi verso l’inutilità dell’ideologia neocon (vedi il testo di “War”). Le ballate, deliranti ed affabili nenie, sono inni disperati all’inutilità dell’amore tra persone alienate e racchiuse tra le quotidiane, peccaminose pratiche della società urbana, come quelle di “China”, “Lost Souls” e le scopate trafugate sul sedile anteriore dell’auto citate in “Tonight”.

C’è del blues denaturato da tastiere troppo oscure, c’è l’abbandono delle speranze di melodie reiterate eppure sempre diverse, la nenia invisibile di una città troppo alta e troppo grande perché gli abitanti riescano a stringere rapporti che abbiano un briciolo d’umanità. C’è, forse, la rassegnazione all’alienazione e la voglia di sospirare e singhiozzare il proprio animo abbattuto. Ne risulta un disco piatto, monotòno e decisamente tutto uguale. Ed è forse questo il suo pregio, come se, a forza di pressare carbone, rimanesse solo carbone ancora più nero del primo. Come se questa fosse l’unica, l’ultima certezza di una vita prevedibile.

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