BJORK, Medùlla (One little Indian / Universal, 2004)

C’è stato un tempo in cui la musica era un’esperienza minima e totale, e il suono usciva dalle cose più elementari: due oggetti picchiati l’uno contro l’altro, il proprio corpo, la propria voce; la musica si faceva assieme, allora, era una creazione di comunità.

Gli strumenti sono arrivati dopo, e le cose sono cambiate. Ora Björk sembra volerci riportare indietro nel tempo: un disco di sole voci, che si rincorrono, si annodano, si fondono, si sovrastano, e la tecnologia si confonde col primitivo, perché “Medùlla” è essenzialmente questo: un disco di “preistoria postmoderna”, se mi si concede questo delirio.

Il suono che esce dai solchi è oscuro e sensuale (i sospiri che fanno da tappeto a “The pleasure is all mine” sono pura estasi, nuova lode alla “poesia pagana” già cantata in “Vespertine”), ipnotico e inquietante (il battito scuro della voce di Rahzel e il raddoppio ultraterreno dell’Icelandic Choir in “Where is the line?”); apre paesaggi irreali in “Submarine” (con uno splendido Robert Wyatt ad inventarsi linee vocali impossibili e cristalline) o nella magnifica “Desired constellation” (solo il canto, ora sottile ora disperato, ad appoggiarsi su un tenue riverbero electro); si apre alla gioia del vivere in “Who is it”, dove tornano i Matmos, o in “Mouth’s cradle”, o ancora nella conclusiva esplosione ritmica di “Triumph of a heart”.

Queste canzoni hanno in sé qualcosa di sacro: sono le carezze lontane di “Vökurò” unite alla celebrazione dell’uomo di “Oceania”, le follie di “Ancestors” (un piano, la voce di Björk e la strepitosa Tagaq a cantare di gola come nessuno mai) e gli scenari mentali di “Sonnets/ Unrealities XI” (di nuovo ee cummings, già omaggiato in“Vespertine” con “Sun in my mouth”).

Ma “Medùlla” non è solo un disco bellissimo, è anche estremamente difficile da ascoltare: non c’è volta che io non mi senta attratto, poi meravigliato, poi annoiato, poi incantato, infine esausto dopo queste quattordici canzoni. Se è vero che per godere al meglio della musica bisogna avere uno stato d’animo in sintonia, questo è cento volte più vero qui, dove l’attenzione a ogni momento è necessaria, pena la sensazione di aver ascoltato una infinita lagna.

Preso pezzo per pezzo, “Medùlla” è un capolavoro; nell’insieme è complesso, faticoso e, tra le pieghe, sembra quasi che Björk insista troppo su armonie vocali e toni che già ci ha fatto ascoltare; concettualmente è quanto di meglio abbia sentito negli ultimi anni, ma l’ascolto non me lo fa adorare come tutti gli altri suoi dischi. Che il coro di lodi, in questo caso, sia eccessivo?

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