SMASHING PUMPKINS, Earphoria (Virgin, 2002)

La storia degli Smashing Pumpkins di Billy Corgan sembrava essersi chiusa definitivamente tra la fine del 2000 e la fine del 2001: prima la tonitruante tournée di addio e autocelebrazione, poi l’uscita del best of con inediti. E invece eccoli di nuovo qui.

Intendiamoci, la band di Chicago è morta e sepolta, Corgan ha già fatto in tempo a formare gli Zwan (con alla chitarra mr. Slint/Tortoise/PapaM David Pajo), ma la tentazione di sfruttare il nome ormai storico delle zucche sfasciate colpisce ancora. Ciononostante la scelta di editare live inerenti al periodo precedente all’uscita di “Mellon Collie and the Infinite Sadness” è sicuramente apprezzabile: laddove sarebbe stato facile e comodo incensare i momenti di celebrità mondiale vissuti dal 1995 allo scioglimento da Corgan, Iha, D’Arcy e Chamberlain – anche quest’ultimo ripescato nella nuova formazione del leader – ecco invece venire alla luce brani tratti da concerti svolti in piccoli club, fumosi e sporchi, lontani anni luce dai palchi alla MTV che di lì a poco esploderanno in tutta la loro grandeur e la loro inconfondibile plastica.

In mezzo ai pezzi live ecco inseriti anche inediti, spezzoni, frammenti, idee, come l’ouverture per organo e chitarra “Sinfony”, meno di un minuto di estasi sinfonica (per l’appunto), o il minuto e mezzo techno/ambient di “Bugg Superstar”, sinceramente quasi ridicolo. Uno stuolo di feedback, distorsioni e riverberi schiaccia l’esile voce di Corgan nella decisamente più riuscita “Pulsezcar”, un intermezzo acustico del tutto ininfluente in “French Movie Theme”.

Tra gli inediti spicca fortunatamente “Why Am I So Tired”, esempio lampante della miglior magniloquenza degli Smashing Pumpkins; i quindici minuti e passa strumentali sui quali si dipana la trama mostrano un gruppo capace, nei suoi momenti migliori, di sintetizzare alla perfezione le reminiscenze hard di band come Black Sabbath, Blue Cheer e Blue Oyster Cult con l’amore viscerale per la new wave anni ’80 (in particolare Husker Du, Pixies e Cure). Una dimostrazione dell’intelligenza musicale di Corgan, sfortunatamente a volte cedevole nei confronti del suo egocentrismo.

La scelta dei brani live è buona, le canzoni sono riproposte con energia e compattezza (anche se mancano, eccome se mancano, le campane a rintoccare il ritmo in “Disarm”, sostituite dai feedback) e su tutte spiccano una versione acustica di “Cherub Rock” e le interpretazioni di “I Am One” e “Soma”, pacificante e delicata. Anche se la perla è la versione urticante e infinita di “Silverfuck”. Ovviamente le più applaudite sono “Today” (leggermente accelerata rispetto alla versione in studio) e “Mayonaise”, dall’atmosfera folk e campestre, cantate e urlate dal pubblico.
In fin dei conti un album che si lascia ascoltare, un testamento decisamente più degno rispetto al controverso doppio cd del 2001.

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