PINK FLOYD, The Division Bell (EMI, 1994)

Nel 1994 i Pink Floyd tornano sul campo con un nuovo disco. Della formazione originaria sono rimasti in tre, Dave Gilmour che dopo l’abbandono di Waters è rimasto il leader indiscusso del gruppo, Nick Mason e Rick Wright, finalmente ritornato a pieno titolo a far parte del ‘nocciolo duro’ (latitava ed orbitava a distanza dai tempi di “The Wall”). I tre si circondano di talentuosi collaboratori, tra cui i membri della band collaudata in occasione del precedente tour di fine anni ’80, più qualche vecchia guardia come Dick Parry, il mitico sassofonista di “Dark Side Of The Moon” (avete presente l’assolo di sax in “Money”?) e “Shine On You Crazy Diamon”.

Il risultato? Imbarazzante. O meglio, imbarazzante per chi ha amato i Pink Floyd degli album storici, e che magari è riuscito a trovare gradevoli anche alcuni passaggi del precedente “A Momentary Lapse Of Reason”, ma che ascoltando questo nuovo disco viene assalito molto presto dalla triste e pesante sensazione di averlo già sentito e strasentito. Ed è un peccato, perché invece chi ignora i dischi precedenti avrà potuto apprezzare i suoni perfetti e pulitissimi di “The Division Bell”, si sarà entusiasmato per i virtuosismi di Gilmour in “Marooned”, sarà rimasto affascinato dalla rumoristica in apertura del disco subito seguita da atmosfere avvolgenti e suadenti assolini di chitarra (ma basta!), avrà amato la voce ruvida di Gilmour e le aperture corali in “What Do You Want From Me”, e la sognante chitarra ritmica con delay di “Take It Back”, eccetera eccetera: questo disco non è altro che un rimescolamento di carte prese dai mazzi di “The Dark Side Of The Moon” e “Wish You Were Here”, più qualcosina forse ripescato da “Meddle” e “The Wall”. Le carte scelte sono buone, e chi non le ha mai viste prima riesce come ho detto a godersi uno spettacolo apparentemente interessante, ma così facendo i Pink Floyd hanno confermato ancora e a maggior ragione di non avere avuto più nulla da dire dopo il 1979, anno della pubblicazione di “The Wall”, a (solo) dodici anni dal loro esordio (ma ben quindici anni prima del disco di cui vi sto parlando, forse un po’ troppi).

Nessuna idea nuova quindi neanche a cercarla con il lanternino, ma qualche pezzo di fattura piuttosto pregevole forse c’è: “Poles Apart” (canzone fascinosa, anche se si continua a parlare del “golden boy” che si è perso per strada, che sia forse Barrett? BASTA!), “A Great Day For Freedom” e “Take It Back” (composizioni di una certa intensità), e la cupa “High Hopes” – forse l’unico brano frutto di un qualche timido germoglio di ispirazione, che stenta a spuntare dalla gelida tundra circostante, anche se ricorda un po’ altri episodi Gilmouriani come “Sorrow”.

Insomma, i Pink Floyd ci hanno provato ancora, ma il risultato dei loro sforzi è stato troppo prevedibile. David Gilmour, probabilmente uno degli uomini più ricchi dell’universo, poteva permettersi di fare qualunque cosa, e ha scelto la tradizione, la ripetizione. E pensare che un tempo erano un gruppo all’avanguardia.

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