GARY MOORE, Walking By Myself – The Best Of The Blues (Virgin, 2002)

Quando ci si trova a parlare di un disco che raccoglie i successi di un artista, il dubbio che tale operazione abbia un’anima squisitamente commerciale sorge quasi spontaneamente. Se poi l’artista in questione è un furbo chitarrista che negli ultimi dieci anni ha cavalcato un genere sì inflazionato ma pur sempre redditizio, allora le perplessità possono essere legittime. Gary Moore è un chitarrista dalle indubbie qualità tecniche e dalle prestazioni quanto mai eclettiche. Nato come chitarrista hard rock, lo troviamo nella line up di gruppi storici come i Colosseum II e i Thin Lizzy, o addirittura al fianco dell’Andrew Lloyd Webber di “Variations”. Fino a mescolarsi nella marmaglia di guitar-heroes degli anni ’80. All’inizio degli anni ’90 arriva la svolta artistica, e così il nostro si scopre innamorato perso del blues, quello ricoperto dal fango del Mississipi, e dalle pentatoniche di B.B. King, Albert King, Muddy Waters. Questo amore partorisce un bellissimo figlio, “Still Got The Blues”, datato 1990, probabilmente il disco più ispirato del chitarrista irlandese. Moore si accorge di aver trovato un filone d’oro praticamente inesauribile: la tradizione blues. Per tutti gli anni ’90 si avvicendano così dischi su dischi, poco importa che siano più le “cover” dei pezzi originali, tanto si sa che il blues, come tutti i generi basati sull’improvvisazione, è un genere che premia più l’interprete che il compositore.

“The Best Of The Blues” arriva come coronamento di una carriera tutt’altro che esaurita (potrebbero starci ancora almeno un’altra decina di dischi-tributo). Questo doppio album raccoglie le grandi “hits” di Gary Moore, brani originali ed interpretazioni riuscite. Impossibile non osservare subito il fatto che nella compilation sia stato inserito nella sua totalità il già citato “Still Got The Blues”. Il disco infatti esordisce con l’inconfondibile riff di “Walking By Myself”, subito seguito dalla energica “Oh Pretty Woman”. Dopo i primi fuochi d’artificio, arriviamo alla parentesi veramente “soft” del disco, “Still Got The Blues”, un blues in minore in cui la Gibson di Gary Moore assume una sonorità flautata “tirabaci”. Rare concessioni ai “lentoni” da ballo; quasi subito dopo troviamo”Story Of The Blues” (nella versione utilizzata per il videoclip), ma manca all’appello la dolcissima “Nothing’s The Same”, sempre appartenente al periodo di “Afterhours”. Dello stesso disco troviamo altre cavalcate blues come “Since I Met You Baby” e “Jumpin’ At Shadows”.

Dai brani tratti dai primi due dischi emerge chiaramente l’anima “hard blues” di Gary Moore, e il suo approccio del tutto nuovo alla musica del diavolo. Negli assolo di Gary Moore viene privilegiata la potenza del suono della ormai inseparabile Gibson Les Paul, e un fraseggio in cui le note scorrono veloci come una scarica elettrica; niente a che vedere con il blues “leccato” di Eric Clapton, ma nemmeno con la pulizia e la geniale inventiva jazz di Robben Ford, che tanto ha svecchiato il vocabolario blues. Gary Moore è un bluesman granitico, a volte più vicino a Van Halen che a B.B. King, eppure la sua proposta è onesta e a volte anche originale. Lontani sono i tempi di “Parisienne Walkways”, cantata dal suo vecchio compagno nei Thin Lizzy, Phil Lynott, e riproposta anche in questa raccolta.

Il secondo disco è quasi interamente dedicato al repertorio live, al fianco dei soliti mostri sacri del blues come Albert Collins, Albert King, B.B. King, riproponendo classici come “Stormy Monday” o “Caldonia”, brano storico del panciuto chitarrista.

“The Best Of The Blues” può essere un utile strumento per chi vuole fare il punto della situazione su un artista che, comunque, a suo modo ha arricchito i modi di interpretare il blues. Il disco rimane ottimo anche per quelli a cui non gliene frega niente del blues, ma vogliono un’energica compilation da viaggio per l’autoradio. Tanto si sa che ascoltare e soprattutto suonare blues fa fico, lo ha capito anche Gary Moore.

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