BOB DYLAN, Bringing It All Back Home (Columbia, 1965)

Nel momento di maggior fulgore della sua creatività, ormai già simbolo di una generazione in lotta, dei fratelli maggiori di quei ragazzi che solo tre anni dopo metteranno a ferro e fuoco il quartiere latino a Parigi, Bob Dylan elabora e porta a termine quello che forse può essere considerato il suo capolavoro – insieme a “Blonde on Blonde” dell’anno successivo -. In un Greenwich Village ormai patria del folk, in un panorama musicale che cerca ogni secondo che passa di sfornare un nuovo menestrello, Dylan ribadisce la sua unicità e la sua originalità.

L’attacco di “Subterranean Homesick Blues” è inaspettato e travolgente, swing mischiato ad un rock classico trascinante, con la solita armonica a bocca di supporto. Il cantautore, con i suoi giochi di parole (avete mai letto “Tarantula”?), parla della società americana con un divertito sarcasmo, irresistibile, mette alla berlina i difensori del pudore e della legalità, ma anche la stupidità degli intellettuali dell’East River. Dopotutto Dylan è il portavoce della massa, novello Joe Hill, non certo dell’intellighenzia. “She Belongs to me” è una canzone d’amore splendidamente accompagnata dalla batteria (“She’s an hypnotist collector, you are a walking antique”), mentre in “Maggie’s Farm” si torna ad odiare il padronato, gli ordini, gli obblighi che la società cerca di imporre. La rabbia di Dylan è genuina e pervade l’aria di elettricità.

Nuovo brano d’amore nell’inimitabile “Love Minus Zero/No Limit”, vera gemma nascosta di un’iperproduzione. La musica è splendida, il testo è forse il più bello che una canzone d’amore abbia mai proposto (“My love she speaks like silence, without ideals or violence”). “Outlaw Blues” e “On the Road Again” sono due blues ispirati dal Be Bop tanto caro a Jack Kerouac e ai compagni della beat generation, e non aggiungono nulla al valore dell’opera artistica di Dylan; fungono invece da spartiacque. Nella prima parte rimangono infatti i brani più spinti, più vicini al rock che irromperà presto “come una pietra che rotola”, mentre nella seconda stanno per arrivare cinque indimenticabili brani folk. Il menestrello ha cambiato faccia, sì, ma non anima!

L’attacco è dato dalla visionaria “Bob Dylan’s 115TH Dream”, dove l’ascoltatore entra nei meandri della mente del menestrello e cerca di decodificarne segni incomprensibili eppure pieni di significati, come nell’ironico finale in cui Dylan, incontrando sul molo di New York le tre caravelle di Cristoforo Colombo, non riesce a far altro se non augurargli “Good Luck”; seguita a ruota dal capolavoro dell’album, forse la canzone più bella di Dylan, “Mr. Tambourine Man”, dove parlando di un semplice spacciatore, vengono condensati tutti i sogni e le ansie di una generazione, che cerca una via di fuga artificiale ad un mondo che ha rinunciato a combattere e che desidera ormai soltanto dimenticare (“With all memory and fate driven deep beneath the waves/ let me forget about today until tomorrow”).

Chiudono l’album, come ipotetico trio, “Gates of Eden”, ennesima critica al mondo e al modo di vivere borghese, “It’s Alright, Ma (I’m only bleeding)”, dove viene descritto il dolore come filosofia e si ricerca un nichilismo intriso di malinconia e dolcezza (la canzone è una delle pietre portanti della colonna sonora di “Easy Rider” di Dennis Hopper) e la dolce canzone d’amore “It’s all over now, Baby Blue” dove si parla della crisi di coppia e della delusione. Un album praticamente perfetto, dove ogni tassello trova la sua giusta collocazione e dove viene divisa perfettamente la parte elettrica (l’ironia, il gioco di parole, l’amore allegro) da quella acustica (la malinconia, il dolore, l’amore sfuggito). Una pietra miliare.

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