Intervista a Ed Harcourt

Ed Harcourt incontrato all’ “Independent Days Festival 2001”– Festa de L’Unità di Bologna

Introduzione
La ragazza, a pochi metri dal palcoscenico, sembra soddisfatta. Ed un poco rapita. Siamo alla tenda “Estragon”, una rimbombante struttura a poche centinaia di metri da quell’Arena dove, domani, il senhor Manu Chao riceverà l’ennesima glorificazione anarchica (e cosa vuoi che siano quarantamila d’ingresso per cantare contro il potere?). Una prospettiva francamente, imbarazzante. Ma stanotte tira un’altra aria. Nel cuore dalla festa dell’Unità bolognese, la solerte organizzazione della “Indipendente” ha messo su questa prima giornata del festival più alternativo d’Italia facendo cozzare violentemente i decibel dei grandissimi (International) Noise Conspiracy con il “flavour” molto west-coast della carovana N.A.M. (sta per New Acoustic Movement ed identifica una scena fatta di tanti epigoni melodiosi dei vari Simon & Garfunkel, Johni Mitchell, Cat Stevens, certe fasi di Neil Young, etc.) qui rappresentata da I Am Kloot, Turin Brakes ed Eels (anche se in realtà questi ultimi finiranno col suonare uno show totalmente punk-rock).

Ed, la rivelazione del 2001
Più Ed Harcourt che, a conti fatti e considerando la dolorosa defezione dei Mogwai (qui c’è ancora chi sta piangendo…), rappresenterà la più gradita soddisfazione odierna. Lui e la ragazza di cui sopra che, al termine del breve set dell’inglese (tre quarti d’ora con tanto di tastiera sfasciata modello gruppo prog seventies e talento dispensato a chili), sembra ancor più bella, adesso che nelle sue orecchie e nelle sue vene, sono filtrate gemme come “Something in my eyes”, “Hangin’ with the wrong crowd”, “God protect your soul” e, ovviamente, “Like only lovers can”. Ehm, avviso ai distratti e a chi compra tre cd all’anno: “Here be monsters”, il debutto di Ed uscito quest’estate quando l’EP “Maplewood” fu faccenda invernale per cuori infranti, è uno di quei capolavori di scuola Elliott Smith-Badly Drawn Boy che è meglio non lasciarsi sfuggire se si apprezza alla follia tutta quella “soul-music” bianca fatta di pianoforti, chitarre acustiche e versi che richiamano alla memoria amori impossibili finiti tra le nostre braccia. E, visto che siamo in tema, “She fell into my arms”, terza traccia del disco di Harcourt, provare per credere…

L’intervista
Pregno di tale ammirazione, ho avuto l’occasione di incontrare il buon Ed seduto su di un muretto nel retro-palco della tenda suddetta dove, complice un sole da estate in riserva ed il consueto casino da pre-concerto, il nostro ha preferito defilarsi per dedicarsi alla lettura di un Raymond Carver buono per tutte le occasioni. Quasi intimidito, mi presento distogliendolo dalla lettura e, così da vicino, mi accorgo a quanto assomigli alla versione magra di quel Greg, macchietta della fortunata trasmissione de “Le Iene”. Non glielo faccio notare, tanto non capirebbe, preferendo di gran lunga dare inizio alla chiaccherata. Partendo da una curiosità che, se confermata, avrebbe dei risvolti così romantici…

Ciao Ed, è vera questa storia pubblicata dalle riviste inglesi che vivi assieme a tua nonna in una grande casa nel bosco?

“Bè, attualmente non più. Questo è un aneddoto che fa parte dalla mia adolescenza ormai…Sono una persona normale: ho ventiquattro anni, abito a Londra assieme alla mia ragazza, scrivo canzoni per campare…Tutto qui.”

Parecchie canzoni, direi. Alla faccia della ventina scarsa sin qui pubblicate, sempre la stampa inglese ha parlato di un archivio di oltre trecento brani a nome Ed Harcourt…

“Si, è vero. Ho scritto parecchio nel passato quando vivevo con la nonna. Qualcosa è sopravvissuto, qualcosa è finito sull’album “Here be monsters”, qualcos’altro non vedrà mai la luce: va così nel mio mestiere. L’importante è essere onesti e cercare di capire cosa vada salvato e cosa no. Non amerei pubblicare canzoni brutte o banali anche se lo fanno in molti…”

Visto che l’abbiamo citata, come sta la nonna?

“Nonna Priscilla? Bene, grazie. Ha da poco compiuto novantuno anni e gode ancora di ottima salute”.

Nonna Priscilla, da oggi per me diviene ufficialmente la vera Regina Madre d’Inghilterra…

“Già, e con dieci anni di meno dell’originale, ah, ah, ah!”

Hai subito delle pressioni mentre registravi “Here be monsters”? Del tuo Ep si è fatto un gran parlare, c’è stato un momento (maggio) in cui sulla stampa britannica non si aspettava altro che Ed Harcourt…

“Praticamente, me ne sono fottuto. Avevo le idee chiare su come muovermi. Dopo la bassa fedeltà di “Maplewood” avevo voglia di un LP che suonasse…Hi-Fi! Volevo muovermi in avanti, come ogni artista dovrebbe fare per non morire. Pensa a Tom Waits: quell’uomo non si è mai ripetuto, è sempre andato dritto per la sua strada. E’ così che si fa…”

Il titolo scelto per il tuo debutto (“Qui vi sono i mostri”) riecheggia quella formula – “Hic sunt leones”- presente sulle vecchie carte geografiche latine per indicare territori sconosciuti ed inesplorati…

“E’ voluto. Nasce dal fatto che sono un’artista emergente desideroso di rischiare e di proporre una musica che sappia essere originale e capace di mostrare prospettive inedite”.

Ad ascoltare il tuo disco si percepisce un senso diffuso d’introspettività. Ti consideri una persona timida?

“Ho i miei alti e bassi, faccio parte anch’io di una macchina sociale: a volte la gente si scorda che i musicisti restano dei normalissimi esseri umani…”

Com’è stato lavorare con Tim Holmes, alias una buona metà dei Death in Vegas?

“E’ stata un’esperienza costruttiva. Lui è stato uno degli ingegneri a cui mi sono rivolto perché ho ammirato quella fabbrica di suoni che è stato “The Contino sessions”. Un album enorme. Per rifarmi al discorso di prima, composti i brani, volevo arrangiamenti che sapessero fare la differenza, ecco”.

Direi che Tim ci è andato giù che è un piacere. I suoni di batteria di un pezzo come “God protect your soul” sono pazzeschi. Scala blues di piano, rullante secco, un senso di peccato in agguato…Stupefacente!

“Suonava già abrasiva nel demo, abbiamo preferito non interferire…Senso del peccato, yeah, quella canzone ha un feeling noir, dark, la volevo proprio così”.

Neanche un anno che se ne parla e siamo già arrivati al punto che essere considerati parte del N.A.M. risulta quasi squalificante per l’artista chiamato in causa. Non trovi tutto ciò assurdo?

“Yeah, ma questo è il guaio di tutte le mode passeggere. Non voglio far parte di nessuna scena proprio per questo motivo. Il mio obbiettivo è uno solo, avere una lunga carriera, e di tutto il resto, credimi, non me ne frega proprio un cazzo”.

E se invece del N.A.M. si tornasse a mettere sul piedistallo solo le grandi canzoni? Questo è stato un buon anno per la musica inglese: penso a certi exploit di Arab Strap, Belle and Sebastian, Divine Comedy, Turin Brakes, Starsailor, a certe ballate degli ultimi Ocean Colour Scene…

“E’ l’unica via di uscita, amico. Credo fortissimamente nel potere della musica e delle grandi canzoni in generale. E’ quello che voglio. Altrimenti per farci notare dovremmo tutti a metterci a ballare in delle boy-band o a sbraitare in qualche formazione nu-metal. Terribile…”

Veniamo alla domanda più difficile: i tuoi dischi favoriti di sempre. Hai carta bianca…

“Fuck, facciamo notte…Dunque, innanzitutto i Beach Boys: credo che “Surf’s up” resti un disco insuperabile”.

Pure “Sunflower” non è male. Sapessi quanto ho goduto ascoltandolo la prima volta, e le successive…

“Conosci “Sunflower”?! Cazzo, in quell’album c’è una canzone di Dennis Wilson, il batterista, chiamata “Forever”, che per quanto tenti non riuscirò mai ad eguagliare. E’ il mio chiodo fisso da una vita!”

E di “All I wanna do”, sempre su “Sunflower”, vogliamo parlare…

“Brian Wilson è il genio di questo secolo, punto e basta. Assieme a lui, pochissimi. Personalmente lo metto davanti al Dylan di “Self portrait”, al Tom Waits di “Blue Valentines”, allo stesso Chet Baker che resta un mio grandissimo riferimento…”

Insomma, i Beach Boys e tanti solisti…

“Bè, non solo: fra i gruppi apprezzo ovviamente Beatles, Sparklehorse ed i Jane’s Addiction di “Nothing’s shocking”. Gli Starsailor, che sono miei grandi amici, verranno fuori tra breve con un grande disco… (“Love Is Here”, N.d.R.)”

Cosa ne pensi del ritorno dei New Order che propri in questi giorni, dopo un’attesa di otto anni, sono tornati sulle scene grazie ad un album onesto e molto vibrante come “Getready”?

“Perché mi fai questa domanda?”

Perché sono italiano e dal mio paese ho sempre visto questo gruppo come un qualcosa di “religioso” per gli inglesi in generale; una formazione profondamente radicata nel background britannico. Popoular, nel senso migliore del termine. Mi sbaglio?

“No, in effetti è così ma a me, per la verità, non sono mai piaciuti granchè. Non so, ho sempre preferito i Joy Division a quelli che poi sarebbero diventati i New Order. Una prima fase irripetibile, la loro”.

Ok, Ed: ti lascio nuovamente al tuo Carver ma prima dimmi se ti rivedremo a breve in Italia…

“Non lo so. Forse l’anno prossimo. Adesso mi imbarcherò in una tournè scandinava, Danimarca, Svezia, etc. C’è così tanto lavoro da fare che mi è impossibile fare programmi a lunga scadenza. Comunque, spero di tornare presto da voi…”

E per quanto riguarda il seguito di “Here be monster” dovremo attendere a lungo?

“Nella migliore delle ipotesi, uscirà a marzo del 2002. Il problema non è mio, io le canzoni le avrei già, una buona parte insomma…Dipenderà solo dalla casa discografica, se mi lascerà libero di agire o preferirà continuare a promozionare “Here be monsters”. Non so, vedremo…”

Vedremo, ascolteremo, applaudiremo, ok, la trafila dovrebbe essere quella ma, credetemi, in conclusione, c’è qualcosa in più…Qualcosa mi suggerisce che ho appena finito di dialogare con una stella. Più tardi rivedrò quella ragazza e, proprio in mezzo ai suoi occhi, scorgerò brillare filamenti della supernova Harcourt. Un brillio per cui vale la pena di vivere un’intera vita anche se, accidenti!, quegli accordi di “Forever” li ha già buttati giù qualcun altro.