GENESIS, Wind And Wuthering (Charisma/Virgin, 1977)

Un disco difficile da giudicare. Sotto molti punti di vista può essere definito ‘epocale’: non per le qualità intrinseche, ma per il suo ruolo, diciamo così, storico. Esso chiude sostanzialmente la gloriosa esperienza progressiva del gruppo, manifestando già tracce di quella che sarà l’ispirazione musicale futura.

Difficilmente i mutamenti artistici, così come quelli di altro genere, avvengono di colpo, da un giorno all’altro; esiste quasi sempre una zona, più o meno vasta, di passaggio, dove i caratteri della fase più antica si mescolano a quelli nuovi. Nel caso specifico questa zona è costituita in buona parte proprio dall’opera di cui stiamo parlando.

Certamente i patiti del progressive, e noi siamo fra quelli, non potranno fare a meno di considerare “Wind and Wuthering” quasi come l’ultimo album dei Genesis: la produzione seguente sarà sempre più, anno dopo anno, quella di un gruppo diverso, che di quello vecchio manterrà, incidentalmente, solo il nome. Sostanzialmente differente sarà anche il pubblico di riferimento. D’altra parte il ’77 è anche l’anno dell’abbandono di Steve Hackett: questo è il suo ultimo album di studio con i Genesis.

Fatta questa premessa – ed evitando di farci prendere dalla tristezza – dobbiamo dire che non si tratta di un brutto disco. Senza dubbio è inferiore al precedente: sia per quanto riguarda la composizione strumentale, sia per quel che concerne il cantato. Appare complessivamente opera più stanca, meno fresca, senza l’inventiva di “A Trick of the Tail”. Il canto di Collins è meno incisivo, più piatto. Eppure l’ascolto rimane piacevole. Il suono è dominato dalle tastiere, specialmente dai sintetizzatori: un suono talvolta un po’ freddo e distante, metallico. “Eleventh Earl of Mar” è uno dei pezzi migliori, anche vocalmente: l’introduzione strumentale lenta e meditativa lascia il posto ad una parte mossa, dalla interessante sezione ritmica (attenzione al basso) , spezzata da un intermezzo più delicato. Ben riuscito anche il collegamento fra l’intermezzo e la ripresa. Il finale ripete, in modo efficace, l’introduzione.

“One for the Vine”, il brano più lungo, racchiude in sé tutte le caratteristiche, i pregi e i difetti, dell’album. O, per meglio dire, ne esprime le due anime: quella progressiva, ancora primaria ma destinata all’esaurimento, e quella più decisamente pop, in piena espansione. L’oscillazione della musica fra l’una e l’altra non produce peraltro un effetto sgradevole. E l’apertura strumentale centrale, con quel repentino e così tipico mutare dell’andamento del pezzo, provoca un tuffo al cuore: non sarà un capolavoro assoluto, ma in questo contesto avaro di momenti realmente memorabili attira l’attenzione. Bello anche tutto il finale, dove l’ultima parola è lasciata al pianoforte solo, che suona quasi come un’epigrafe. Fin qui i pro. I contro vanno localizzati in certi passaggi vocali non proprio convincenti, zuccherosi e salottieri: come salottiero è del resto un po’ tutto il disco.

Prendendo dunque “One for the Vine” come pietra di paragone, possiamo attribuire al versante pop dell’album “Your own special Way” e “Afterglow”, brani che piaceranno soprattutto ai fans del Phil Collins più mieloso. Il primo in particolare costituisce uno dei punti più bassi dell’album: un banale e stucchevole ritornello, con terrificante coretto di vocine. Dopo un’epigrafe edificante, ecco un lugubre atto di nascita, che porta la firma di Mike Rutherford. Non c’è molto di che gioire nemmeno per l’incolore “Afterglow” e il suo insistito e fastidioso accompagnamento corale. Nettamente superiori sono invece “All in a Mouse’s Night” e “Blood on the Rooftops”. Quest’ultima è addirittura una sorpresa: il lungo assolo iniziale di chitarra acustica, da menestrello medioevale, giunge assolutamente inatteso in una trama prevalentemente elettrica e ‘sintetica’.

Il buon Steve dimostra di non aver perso la mano e il tocco di fino, mentre la mente corre immediatamente ad “Horizons”: sembra passato un secolo, ma sono solo cinque anni. Delle tre tracce interamente strumentali la migliore è “…in that quiet Earth” (che in realtà, come mostra anche il titolo, è la continuazione della precedente “Unquiet Slumbers for the Sleepers…”): da segnalare certe taglienti e vigorose chitarre alla King Crimson, inusuali per i Genesis. Una curiosità: può capitare di vedere datato “Wind and Wuthering” al 1976; questo perché è stato registrato nel dicembre di quell’anno: ma ciò che conta è il momento della pubblicazione.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *