YES, Relayer (Atlantic, 1974)

Dopo la delusione di “Tales from topographic Oceans”, le azioni degli Yes tornano a salire con “Relayer”: un disco generalmente sottovalutato, forse anche perché la sua struttura ricalca quella tripartita del capolavoro “Close to the Edge”: una lunga suite iniziale (ma in questo caso non suddivisa in sezioni) seguita da due brani, sempre piuttosto lunghi, che occupano il lato B. Si afferma insomma, comunemente, che gli Yes vorrebbero ‘ripetere la fortunata formula di Close to the Edge per ispirazione e numero di brani (tre)’. (Cesare Rizzi, “Progressive”, Atlanti Universali Giunti, Firenze, Giunti, 1999). Ora, lasciando perdere considerazioni come queste, puramente esterne al fatto musicale, rimane il dato di fatto che abbiamo di fronte un disco di qualità ben più alta del precedente “Tales…”. Lo stesso Rizzi, nel giudizio globale, concorda sostanzialmente con noi; ma poi aggiunge frasi sibilline francamente inutili, se non incomprensibili. ‘All’epoca non venne – riferito a Relayer – accolto con il consueto entusiasmo, anche perché mancava Wakeman, sostituito senza troppa gloria da Patrick Moraz’. E’ l’ultima affermazione che ci lascia perplessi. Nessuno mette in discussione la grandissima abilità di Wakeman, ma quel che conta davvero, nel giudicare un disco, è la qualità delle composizioni: e in questo ambito lo svizzero Moraz non ci sembra sfigurare per niente. I brani sono frutto di un lavoro di gruppo. La lunga “The Gates of Delirium” ci fa respirare di nuovo il suono Yes: è una composizione complessa e unitaria nello stesso tempo, senza cadute d’ispirazione. La sezione vocale è all’altezza dei migliori risultati precedenti, con passaggi di grande suggestione: ad una prima parte più grintosa, segue quella finale di grande lirismo, dove Anderson mostra ancora una volta le sue doti. Lo strumentale è poderoso, a volte contorto, ridondante e magniloquente fino all’ipertrofia e al delirio sonoro, come viene da dire guardando il titolo della canzone; ma comunque sempre interessante e coerente; tocca l’apice di intensità nella parte centrale del brano, per poi acquietarsi nel finale. Ci troviamo di fronte ad un punto di rottura, oltre il quale lo stile del gruppo inglese non potrà che modificarsi, almeno in parte. “To be over”, terzo e ultimo brano dell’album, porta già al suo interno i primi deboli germi di questo cambiamento: introdotto da tenui sonorità orientaleggianti e ‘cinesizzanti’, che ritroveremo ad esempio in “90125” dell’83’, in canzoni come “Changes” e “Hearts”, il canto tende a piegare verso le modalità di un pop più tradizionale e orecchiabile. A ricordarci l’anno di questo pezzo, il più debole di “Relayer”, rimane l’inconfondibile chitarra progressiva di Steve Howe; uno Steve Howe che emerge vistosamente in tutte e tre le tracce del disco, con un suono prepotente e perentorio, talvolta quasi stridulo: e prepotente è anche “Sound Chaser”, specialmente nell’inizio debordante e pirotecnico, dove canto e suono si fondono in modo stupefacente, e la voce di Anderson diventa uno strumento alla pari con gli altri: tastiere, basso, chitarra, batteria: una sarabanda, uno splendore che non può lasciare indifferenti; splendore da tardo impero, crepuscolare: in ogni caso la prova che gli Yes, dopo il flop dell’anno precedente, erano tutt’altro che finiti. Sintomatica la quasi totale assenza della “leggera” chitarra acustica. Copertina in toni chiari di Roger Dean, con tanto di insetto che spunta, come un mollusco, da una conchiglia.

Dopo circa due anni di pausa (dedicati a progetti solisti) il quintetto, con Rick Wakeman figliol prodigo, tornerà in sala di registrazione per incidere “Going for the One”, pubblicato nel ’77. Moraz si unirà nel ’78 ai Moody Blues, lasciati da Mike Pinder, loro storico tastierista.

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