PAOLO CONTE, Razmataz (CDG East West, 2000)

L’interminabile sabato del villaggio è finalmente finito. A differenza di quella del Leopardi, la nostra domenica mantiene tutte le promesse di un’attesa dolce e sempre più impaziente. A distanza di cinque anni dall’ultimo “Una faccia in prestito”, dopo centinaia di serate spese in giro per il mondo con una band sempre più rodata e fidata, tirava un’euforizzante aria di capolavoro. Ed ecco infatti che l’ormai ex Avvocato di Asti ci dà ragione e contemporaneamente ci spiazza con questo musical immaginario, figlio della sua personale nostalgia di un tempo mai vissuto (tema principe di molte sue canzoni). Ascoltare “Razmataz” è fare un salto negli anni ’20 a Parigi, dove era tutto un fiorire di correnti artistiche fondamentali per gli anni a venire. Il Dadaismo, il Futurismo, il Jazz, lo Swing, la canzone popolare francese e diversi esotismi africani e sudamericani si incontravano nella Ville Lumière, già allora crocevia ed enorme spugna di culture e generi disparati. Conte ci guida all’interno del suo sogno, un sogno sul quale egli ha lavorato, tra alti e bassi, per quasi trent’anni, fra composizioni abbozzate e centinaia di schizzi, disegni, veri e propri quadri, nel tentativo sublime di legare le sue due grandi passioni, il suono e l’arte figurativa.
Il caleidoscopio sonoro ideato dal baffo più seducente dell’Emisfero Boreale è un enorme serbatoio di citazioni e rimandi, filtrati dalla personalità dirompente di un artista all’apice della creatività. In “Razmataz” circolano liberi e felici molti fantasmi eccellenti. Duke Ellington (grande boxeur…), Glenn Miller, George Gershwin, Benny Goodman e Sidney Bechet animano le atmosfere da Big Bands della title track e la maestosa chiusura di “Mozambique fantasy”. “Guaracha” è vegliata amorevolmente da Carlos Gardel ed Astor Piazzolla, mentre “Pasta Diva”, che titolo geniale, è un piccolo ma sentito omaggio alla nostra tradizione operistica ed alla musica napoletana. E poi c’è la Francia, la bien aimée Paris, le cui atmosfere sono evocate da Conte come solo i grandissimi della canzone d’Oltralpe hanno saputo fare. “Paris, les Paris” è semplicemente meravigliosa, piena di Montand, Trenet e delle cose più melodiche dell’ultimo Dutronc, mentre in altre due composizioni Edith Piaf resuscita letteralmente nella voce di un’incredibile corista; da brividi! Sempre più trascinati da questo geniale turbinio, scopriamo citazioni più o meno volontarie di Brel (gli uomini che in “La petite tendresse” invecchiano e diventano irrimediabilmente più maiali assomigliano davvero molto ai Bourgeois di Jacques, “…les bourgeois sont commes les cochons, plus ils deviennent vieux, plus ils deviennent betes…”), ed omaggi al genio di Simenon (“Yellow dog” è la traduzione di un famoso romanzo del creatore di Maigret, “Il cane giallo”) ed alla schiettezza di Brassens (le chitarristiche “Ca depend” e “Guitars”). Paolo Conte è un moderno Salgari, un artista poliedrico che ci porta con sé durante i suoi viaggi. E noi riusciamo a sognare…

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