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Ferite pubbliche e tentativi di ricostruzione
Ho aspettato un bel po’ prima di scriverne e si può anche immaginare il perché. “Pink Elephant”, il settimo disco degli Arcade Fire è un lavoro segnato dalla rilevante vicenda di Win Butler che condiziona in modo più o meno inevitabile la ricezione di questo album da parte di pubblico e critica. Per quel che riesco a saperne, a tre anni dall’emergere del caso non ci sono stati procedimenti legali ufficiali ma le multiple accuse di comportamenti sessuali inappropriati e molestie (lui li ha sempre connotati come consenzienti) hanno spezzato il legame tra gli Arcade Fire e un contesto che li ha amati non poco. Oltretutto, qui non vale nemmeno la classica formula della separazione tra l’artista e la sua biografia perché questo disco, per quanto la cosa possa essere implicita, racconta proprio di quello.
Racconta, sostanzialmente, di una ricerca di fiducia, di una rielaborazione di sé, di un cambio di pelle e di un qualche contatto col dolore, altrui e proprio. Questa band, ribadiamolo, è di fatto una coppia di coniugi e ciò rende il tutto ancor più delicato, comunque la si provi a definire. Proprio tale approccio “a cuore aperto” sembra aver indispettito i più, nel senso che a molti pare una semplificativa ricerca di comprensione e una sorta di perdono. Insomma, sarebbe la cenere sul capo che fa essere tutti amici come prima.
Un disco sommesso e spezzato
Ma, secondo me, sta qui la nota di maggior rilievo del disco: non credo che Butler e Chassagne siano così superficiali da pensare ad un esito del genere. Credo che in loro due (Régine in primis, forse) ci sia una sufficiente dose di consapevolezza da sapere in partenza che questo disco verrà preso (anche) a sassate. Se vogliamo dirla proprio tutta, la scelta di tenere questo tono, questo mood e questa dimensione sonora è anche in parte obbligata: come sarebbe stato recepito oggi un album degli Arcade Fire fatto tutto di epica, purezza e positivo calore umano? Allora è abbastanza congrua la connessione tra il tono sommesso, le tinte aspre e le sonorità che rinunciano ad alcuni dei tratti distintivi degli Arcade Fire. C’è chi dice: “non ci sono i ritornelli da cantare con il pugno alzato”. Sì, è esattamente così ma che senso avrebbero avuto qui, in questo scenario?
La fine dell’epica
Allo stesso tempo non si può dire che non suoni come un disco degli Arcade Fire, sebbene la formazione sia quella di un duo intorno a cui ruotano i contributi di altri (il violino di Sarah Neufeld, Dan Boeckner in un paio di tracce alla chitarra, la co-produzione di Daniel Lanois…). La mano di Lanois, appunto, la sentiamo anche negli intermezzi strumentali d’ambiente, oltre che nella patina che spedisce qualche traccia (“Year Of The Snake”) in un tempo indefinito che, con le distinzioni del caso prova a riconnettersi con certi umori di “The Unforgettable Fire”. Tre tracce ambientali su dieci totali sono un’esagerazione, dicono molti, ma è funzionale a lasciare emergere le canzoni (quando arrivano) nell’unico modo che permette di alternare le parole con qualche (probabilmente doveroso) silenzio. Quindi è un disco con poche “canzoni”, più ritmico (“Alien Nation”) che melodico e, se vogliamo, c’è qualche eco di “Reflektor”, al netto della produzione di James Murphy. Il rosa è un rosa scuro, intenso e sanguigno, che quando prende la piega synthpop una volta funziona (“Circle Of Trust”) e un’altra poco (“I Love Her Shadow”). Dalla sua ha il fatto che è più consistente di “Everything Now”, e meno disomogeneo di “WE”.
Detto ciò, siamo naturalmente lontani dalla fase aurea del gruppo. Quella di una spontaneità e brillantezza che difficilmente tornerà, per motivi diversissimi e che a questo punto s’intrecciano. Oltre all’omogeneità c’è proprio che è un disco di una band (o di due persone, nella sostanza) che non cerca di essere un’altra cosa rispetto a quel che può essere. Sentirete dire spesso che è un disco di merda quando invece, tecnicamente non lo è affatto. Quella è un’espressione figlia, o quantomeno parente, dei leciti sentimenti di dolore di molti e dell’opportunità di smarcarsi di altri.
69/100
(Marco Bachini)