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Il fumo denso di sigarette Alfa aspirate con voluttà da bocche frettolose si mescolava all’odore acre di birra e sudore nel ventre pulsante del Covo Club. Venerdì 11 aprile. In un angolo defilato, sotto la penombra complice di un abat-jour sbilenco, sette figure tenevano un profilo basso, i volti tesi nonostante il frastuono assordante. Erano i quattro membri de Il Mago del Gelato – Giovanni Doneda, Ferruccio Perrone, Pietro Gregori e Alessandro Paolone – giunti nuovamente a Bologna dopo essere miracolosamente scampati a un attentato dinamitardo che aveva polverizzato la loro Lancia Delta. Si sussurrava, con un brivido di terrore, che dietro quell’esplosione potesse esserci la lunga mano di Nicola Felpieri, quel nome sussurrato come un anatema nei vicoli bui di Milano. Con loro c’erano tre assi della musica ingaggiati all’ultimo minuto: Alessio Dal Checco, Elia Pozzi e la meravigliosa, irresistibile Martina Campi.
Il Covo non era un locale sconosciuto per loro; ci avevano già lasciato il segno in passato. Ma questa volta l’atmosfera era diversa, carica di una tensione palpabile. Bologna, pur essendo una città amica, rappresentava ora un rifugio temporaneo dopo il caos e la paura. L’idea era semplice: mimetizzarsi tra il pubblico che già conosceva e apprezzava la loro musica, sperando di passare inosservati agli occhi, si temeva, onniscienti del misterioso Felpieri.
Quando il gruppo che avrebbe dovuto suonare quella sera diede forfait all’ultimo minuto, il proprietario del Covo, un omone burbero con un passato da pugile che si ricordava bene delle loro precedenti esibizioni, puntò gli occhi sui sette forestieri. “Voi siete musicisti, no? Avete gli strumenti. E il pubblico vi aspetta. Suonate, fate vedere cosa sapete fare ancora!” Non ci furono repliche.
Quella sera, il Covo Club si trasformò nuovamente in un’esplosione di funk viscerale, di contaminazioni jazz raffinate e di ritmi afrobeat che facevano vibrare le fondamenta. Il Mago del Gelato, con l’aggiunta dei tre talentuosi gregari, creò una miscela sonora ipnotica e irresistibile. La chitarra di Ferruccio Perrone dialogava con il sax tenore di Alessio Dal Checco in un botta e risposta di note eleganti e graffianti, mentre il basso di Giovanni Doneda era un serpente sinuoso che si insinuava nelle pieghe del ritmo incalzante di Pietro Gregori. Le tastiere di Alessandro Paolone creavano atmosfere ora rarefatte ora pulsanti, il flauto traverso di Martina Campi disegnava arabeschi melodici che si fondevano con le percussioni poliritmiche di Elia Pozzi, e il trombone aggiungeva improvvise sferzate di energia.
La folla, felice di ritrovare quella band che aveva già infiammato le loro serate, si abbandonò a una danza frenetica e liberatoria. Ballavano, sudavano, urlavano incitamenti. Il successo fu immediato e totale, un’onda di calore e di groove che spazzò via ogni preoccupazione, almeno per quella notte. Persino le ombre cupe che aleggiavano sui volti dei sette musicisti sembrarono dissolversi nel calore del palco e nell’affetto del pubblico bolognese.
Ma la magia svanì con le prime luci dell’alba. Quando gli ultimi irriducibili, ancora in preda all’euforia, implorarono un altro pezzo, il palco era desolatamente vuoto. Gli strumenti erano spariti nel nulla. Dei sette musicisti non c’era più traccia. Erano svaniti come un miraggio sonoro, lasciando dietro di sé solo l’eco vibrante della loro musica e un vuoto denso di interrogativi.
Fuori dal Covo, l’aria frizzante del mattino portava con sé solo domande senza risposta. Perché, dopo aver infiammato nuovamente il cuore del loro pubblico bolognese, erano svaniti così all’improvviso? La minaccia di Nicola Felpieri, quel nome sussurrato come un anatema nei vicoli bui di Milano, era ancora così incombente da costringerli a una fuga precipitosa da Bologna, proprio come erano fuggiti dalle macerie fumanti della loro Lancia Delta? Il mistero si infittiva, avvolgendo nella sua trama oscura la città e la leggendaria notte in cui Il Mago del Gelato aveva fatto ballare l’anima del Covo, per poi svanire nel nulla, lasciando i fan a interrogarsi su cosa fosse realmente successo.















