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Background e collaborazioni
Bob Mould si è sempre distinto tra i suoi contemporanei per la sua instancabile determinazione e un costante ritmo di lavoro. Here We Go Crazy (2025), il suo nuovo disco in studio – il quattordicesimo della sua discografia solista, senza contare i lavori pubblicati come membro degli Hüsker Dü, dei Sugar, come LoudBomb e Blowoff – prosegue anche uno dei suoi periodi più fruttuosi, ispirati e rilevanti. Dal 2012, quando il cantante e chitarrista è tornato alla ribalta con il rumoroso Silver Age (che presentò dal vivo in due affollati concerti al Sesc Pompeia), i suoi album sono sempre carichi di materiale vitale. Inoltre, quello stesso disco ha segnato l’inizio di una longeva e invidiabile collaborazione musicale con i veterani Jason Narducy (ex membro della mitologica band Verbow) al basso e Jon Wurster (noto per i suoi lavori con i Superchunk e anche con i The Mountain Goats) alla batteria.
Il nuovo disco e le sue vibrazioni oniriche
Il che porta a una domanda pertinente: considerando i già numerosi album pubblicati con la coppia – Beauty & Ruin (2014), Patch The Sky (2016), Sunshine Rock (2019) e Blue Hearts (2020) –, quali novità, oltre alla promessa sempre mantenuta di riff appiccicosi e melodie energiche, si possono trovare in un nuovo disco di Mould con gli stessi partner più di dieci anni dopo la loro prima unione? Tante, a giudicare dagli 11 brani e poco più di 35 minuti di durata di Here We Go Crazy. Con una sorprendente vitalità nella performance vocale (che conserva il dono armonico conosciuto dal mondo negli anni ’80) e con sonorità scintillanti e persino spigolose estratte dalle sue sei corde, Bob dimostra di avere ancora molto da dire, nonostante le rinunce e le inquietudini.
La riflessiva title-track (e primo singolo) imposta un tono cadenzato e persino cinematografico che attraversa molti dei testi presenti nel disco: tra reminiscenze di paesaggi e bandiere multicolori, è quasi impossibile non cogliere le domande di Mould di fronte alle tante tribolazioni vissute dai suoi connazionali (e dal mondo intero) negli ultimi mesi. L’amarezza, però, lascia spazio alla veloce e irresistibile “Neanderthal”, con un ritmo degno di Copper Blue (1992), classico dei Sugar. Non a caso secondo singolo dell’album, il brano può apparire quasi spiazzante se accostato alla più lenta “Breathing Room”, con un testo intimo e pieno di riferimenti a mantra – all’interno del quale Narducy brilla con le sue linee melodiche gravi.
Echi di libertà
Sia Narducy che Wurster, tra l’altro, sembrano ancora più a loro agio nei rispettivi ruoli di accompagnatori di Mould: se “Hard To Get” evoca il passato del batterista nella band di Mac McCaughan, “Fur Mink Augurs” giustifica l’importanza ancora troppo poco riconosciuta di Bob e della sua influenza su moltissime band punk che, dagli anni ’90 in poi, si sono mosse seguendo regole che lo stesso chitarrista aveva inventato dieci anni prima. In momenti come “Sharp Little Pieces”, che si apre con la sola voce distorta di Mould accompagnata dalla sua chitarra, vale la pena ricordare i molti concerti degli ultimi anni in cui il cantante si è esibito senza band, per arrivare a una bella conclusione: anche se non può ignorare i problemi che lo circondano, Bob appare oggi più in pace con un passato che in altri momenti ha cercato di lasciarsi alle spalle con rispetto, ma con determinazione. Un altro esempio è la delicata “Lost Or Stolen”, forse il momento più tenero del disco, in cui gli arpeggi acustici portano tocchi di sottile malinconia, pur senza disperazione.
“Thread So Thin”, al contrario, è forse il momento meno riuscito della scaletta. Con un approccio sonoro più moderno (che ricorda i tempi aridi in cui il “post-grunge” sembrava il triste futuro del rock), è un brano che stona accanto alla traccia finale “Your Side”, in cui il cantante appare più fragile e titubante. Forse, se al suo posto ci fosse stata la già citata “Neanderthal”, il finale sarebbe stato meno anti-climatico e più redentore. Meglio allora la brillante “When Your Heart Is Broken”: nascosta a metà tracklist, è una piacevole sorpresa che rimanda a ciò che Bob faceva all’inizio della sua seconda decade di carriera, un cenno pop ai suoi migliori momenti solisti. Già da ora si candida a essere uno dei brani più forti del disco, soprattutto dal vivo.
Pur non essendo doloroso come Blue Hearts – uscito durante la pandemia di COVID-19 – Here We Go Crazy si chiude con un accento piuttosto ambiguo rispetto al suo titolo impulsivo e spontaneo. Forse questo era proprio l’effetto cercato: un commento ironico sulla propria libertà creativa e sulla soddisfazione per aver realizzato un altro ottimo lavoro al servizio della buona musica. E, pur flirtando qua e là con l’anticlimax (e confondendo in qualche passaggio), Bob Mould appare a suo agio nel corteggiare la confusione tra i suoi tanti fan, a favore della propria arte.
Curiosamente, sia Jason Narducy che Jon Wurster stanno prendendo parte a uno dei tour più celebrati del circuito indipendente americano degli ultimi mesi: accompagnano il cantante e attore Michael Shannon in una tournée nei club degli Stati Uniti, suonando per intero Reckoning, classico dei R.E.M. del 1984 (il bassista aveva già partecipato ai concerti tributo al debutto della band, Murmur). Acclamati per il rispetto mostrato sul palco e onorati persino dalla presenza degli ex membri originali, questi concerti dedicati al passato agiscono come uno specchio concavo rispetto al presente, grigio ma reale, di Mould. Lontano dall’autocelebrazione, e consapevole del peso dei suoi traguardi passati, Bob appare deciso a condividere, sorprendere, emozionare e, sì, entusiasmare anche i suoi fan più dubbiosi. Diciamocelo: non esistono molti meriti più grandi di questo – se è che ce ne siano.
– Davi Caro è professore, traduttore, musicista, scrittore e studente di giornalismo.