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È stata la settimana di St. Vincent, nulla da dire. È partito tutto da giovedì scorso, quando i tre Nirvana redivivi sono saliti sul palco del Fire Aid a Los Angeles per suonare quattro pezzi, alternando cantanti diverse per sostituire l’insostituibile (non diciamo nemmeno chi). Tra le quattro hanno utilizzato anche St. Vincent, che aveva in realtà già suonato con loro nel 2014. News apparsa su tutti i nostri feed social, anche troppo a dir la verità. Chissà se qualcuno si è guardato ed ascoltato veramente le esibizioni ed è andato oltre alla storia strappalacrime di vedere la figlia di Dave Grohl con Dave Grohl in quella formazione. Io l’ho fatto e, mi dispiace Anne, ho stoppato “Breed” dopo poco che lei ha iniziato a cantare. È anche colpa della qualità pessima di registrazione con cui possiamo valutare la sua esibizione, però – certo – il problema è sempre lì: Cobain è insostituibile.
Già da lì dunque mi era venuta l’idea di dedicare il #tbt di questa settimana a lei, perché mi piace sempre immergermi in uno snodo del suo passato che io amo molto, e che vedremo. Ma poi St. Vincent ha “giocato il carico” e mi ha obbligato a renderla protagonista di questo articolo: lo scorso lunedì si è persino aggiudicata tre Grammy (categoria Best Rock Song per il brano “Broken Man“, Best Alternative Music Performance per il brano “Flea” e Best Alternative Music Album per l’LP “All Born Screaming“), finendo in tutti i box di news. Visibilità a mille, ma lei ci era già abituata: i suoi tre ultimi album, “St Vincent” (2015), “Masseduction” (2017) e “Daddy’s Home” (2021) avevano vinto tutti e tre la categoria Best Alternative Music Album, che a questo punto è una categoria monopolizzata da Annie Clark da un decennio. Che ad analizzare bene ha anche delle controindicazioni: quando prendi dei Grammy vuol dire che sei proprio stato inglobato dal music-system, perché forse può essere considerato il riconoscimento più boomer che ci sia, più conservatore di tutti. Già un ragazzino degli anni ’80 lo capiva quando vedeva che vincevano sempre gli stessi sia che facessero album buoni oppure no, sempre e comunque, con la pioggia e con il sole, con il caldo e con il gelo, già allora comprendevi che era un teatrino per pochi eletti: se entravi bene, eri uno di loro e da quel momento lì la pacca sulle spalle era dedicata anche a te. Se no, ciao, non sei nessuno. I Grammy si davano o si danno ai soliti noti indipendentemente da quello che hanno prodotto, solo perché certi sono stati sdoganati dalla borghesia discografica losangelina. È la scelta dell’élite non come riconoscimento ma come ingresso in un club. E che poi i Grammy siano davvero fuori dal mondo lo dà l’idea che sono stati premiati nella categoria Best Rock Performance i Beatles e Best Rock Album i Rolling Stones. See vabbé… nel 2024. Largo ai giovani.
Quindi dopo questo sproloquio in che anno del passato di St. Vincent è bello riposizionarci? Io non ho dubbi e scelgo il 2011. St. Vincent veniva dai primi due suoi album belli e liberi, di sperimentazione e obliqui, nel pieno solco dell’indie rock di quel decennio, ed era stata una bellissima scoperta. Ma voi sapete tutto dell’epopea di St. Vincent perché ci abbiamo fatto pure un #day, vero?
Il 2011 in particolare fu l’anno di “Strange Mercy”, e con quel disco Anne si posizionava su quel sottile crinale che separa i suoni elettrici da quelli digitali, cesellando chirurgicamente i suoi suoni in un ambiente asettico ma sempre pronto ad esplodere. Più che una musicista, una specialista dell’analisi fonetica. La mia estasi nel godere della sua presenza e della musica in quel periodo iniziò con quel capolavoro di live, sia dal punto di vista estetico, visuale e finanche musicale, che fu la sua 4AD Session: la sua voce volteggiava e dai moog fuoriuscivano tessiture sintetiche e note rugose, quello che comunque era il substrato proprio di “Strange Mercy”. Un video che è di una bellezza sconvolgente: lei, le inquadrature (i registi Iain Forsyth e Jane Pollard si erano ispirati alla performance del 1968 di Shirley Bassey di “This is My Life” su Rai Uno), la sua determinazione mista a scatti nervosi di tenacia, è come se lei sia contemporaneamente in primo piano ma anche in alto, elevata sopra di noi, come se non fosse terrena. Dietro a lei una nuova band di professionisti (Daniel Mintseris alle tastiere, Toko Yasuda al moog e Matt Johnson alla batteria, lo stesso che ha suonato in “Grace” di Jeff Buckley, tanto per intenderci) che non lasciavamo una nota al caso o all’improvvisazione, come le pennellate in un quadro di Mondrian.
Era un momento di grazia, non c’è che dire. Anche di difficoltà personali di Anne Clark che però risuonavano catartiche in quell’album, come se uscissero da lei nella loro intensità per non consumarla dentro e per smorzarsi in noi ascoltatori. In alcuni momenti, e sto parlando del finale di “Surgeon”, nella parte mediana di “Nothern Lights”, il livello di esasperazione sonora si fa elevatissimo e sempre quasi sul punto di scoppiare, ma lei riesce sempre a tenere le redini di quella marea di sensazioni che si agitano come cavalli imbizzarriti.
St. Vincent era pure ironicamente cattiva (la caricatura della madre e moglie remissiva in “Cruel”) o artisticamente elevata e trasversale (nel video di “Cheerleader” si trasforma in una scultura gigante di Ron Mueck, ad Aarhus vidi dal vivo la scultura Boy di Mueck, un ragazzo alto più di quattro metri, e devo confermare che è sconvolgente), era cioè in un momento in cui tutto quello che toccava diventava afflato artistico.
La vidi in quel periodo in una data zero di presentazione dell’album a Milano, per pochi intimi, e fu straordinario (il report è qui), e poi anche a febbraio 2012 a Bologna e anche lì lei voleva davvero entrare in sintonia con il suo pubblico, portare la vera se stessa al di fuori di quello che la consumava dentro (si lanciava anche sul pubblico con stage diving miracolosi, e veniva giù dal palco per sentire il calore dei suoi fans).
Quello che è venuto dopo quell’album e quel tour non è stato probabilmente minore, ma è stato diverso (potete leggere qui un ulteriore excursus libero sulla carriera di St. Vincent). Anzi per molti è stato meglio, per la stessa ragione per cui alcuni fan della prima ora – come il nostro Stefano Folegati del quale trovate qui su Kalporz le recensioni dei primi due album nel 2007 e 2009 – continuano a trovare migliori le prime prove, perché è quando sbattiamo contro per la prima volta ad un’artista che ci sconvolge che ciò rimane indelebile nei nostri occhi e nel nostro cuore.
Dunque brava St. Vincent per i tre Grammy, ma io penso spesso con forte senso di estasi a quella Annie timidamente determinata di “Strange Mercy”. Uno strano momento di misericordia. Anzi, di grazia.
(Paolo Bardelli)