“Una cultura maschilista tossica”: Burger Records costretta a chiudere


Negli ultimi giorni è esploso il caso Burger Records, label surf/garage/indie rock californiana famosa per le sue cassettine e l’attitudine freak/neo-slacker/balneare delle band che ha portato alla ribalta, la cui popolarità ha raggiunto i più noti club e locali estivi italiani nell’ultimo decennio.

Grazie a numerose testimonianze riportate da un profilo Instagram creato ad hoc è venuta fuori una diffusa “culture of toxic masculinity”, tra squallidi adescamenti e molestie sessuali che hanno coinvolto ragazzi e ragazze molto giovani, addirittura minorenni.

Una volta esploso il caso nella giornata di lunedì 20 luglio, il co-fondatore Lee Rickard si è dimesso, mentre Sean Bohrman ha preannunciato di seguire le strade del socio. Contestualmente è stata nominata a interim una nuova presidente, Jessa Zapor-Gray.

Ma è servito a poco. L’ondata di denunce ha travolto anche la neo-presidente che ha pubblicato un comunicato per annunciare, a sua volta, le dimissioni.

Così, come hanno confermato i due co-fondatori, la label fondata a Fullerton nel 2007 non cambierà nome, ma chiuderà definitivamente i battenti e tutte le sue produzioni verranno a breve rimosse da ogni piattaforma di streaming. Anche i profili social di Burger da ieri sono stati cancellati e in questo articolo abbiamo preferito non nominare nessuna delle band e dei musicisti coinvolti. Rischierebbe di regalare una perversa notorietà postuma che non intendiamo regalare.

Se ne sentirà la mancanza?
Alla luce di quanto emerso, anche no.