UPCHUCK, “Bite the Hand That Feeds” (Famous Class, 2023)

Gli Upchuck sono una band originaria di Atlanta, la cui scena musicale si conferma piuttosto vivace. Il quintetto è nato nel 2018 fra skate park e feste al college nei sobborghi di quella città che è spesso associata ai primi vagiti trap e arriva a fine 2023 con già due dischi all’attivo: “Sense Yourself”, arrivato a fine 2022, e “Bite the Hand That Feeds”, il sophomore album prodotto da Ty Segall e pubblicato meno di un mese fa.

Con tredici brani condensati in meno di trentatré minuti, gli Upchuck proseguono l’esplorazione di quella formula al confine fra il punk rock e il garage, un elemento che viene inevitabilmente esaltato dal lavoro in studio con uno dei garage rocker di riferimento di questo millennio. L’approccio dritto di “Bite the Hand That Feeds” risponde a una scelta stilistica chiara: non c’è spazio per orpelli di alcun tipo, il disco intende aggredire frontalmente e lo fa con un profluvio di chitarre ruvide e distorte, con qualche lieve punta di acidità, e ritmiche tanto incalzanti da farsi a tratti claustrofobiche, mentre il cantato di Kaila “KT” Thompson riesce a comunicare un senso di sofferenza e rabbia, specie nei momenti più tesi.
Tutto questo, nella sua ripetitività, finisce per essere croce e delizia di un lavoro che conserva lo stesso livello di intensità per tutta la sua durata, rimanendo perfettamente autentico e fedele a sé stesso, ma che rischia anche di svelarsi completamente (o quasi) prima ancora di compiersi del tutto. Sul piano della scrittura, invece, non sempre di immediata comprensione anche per alcune scelte di campo in fase di produzione, gli Upchuck provano a scandagliare tematiche come l’identità e il rapporto col mondo esterno, ma anche le ingiustizie sociali, spesso con parole taglienti e pregne di quella stessa rabbia trasmessa dalla musica.

I momenti salienti del disco sono anche quelli destinati a diventare, presumibilmente, gli episodi più popolari di questa seconda prova in studio firmata Upchuck. L’opener “Freaky”, innanzitutto, con il suo incedere furente e le sue sferzate chitarristiche che già ci raccontano dell’influenza e del graffio di Ty Segall, ma che non concedono discese a compromessi con l’anima più punk. Con qualche decelerazione funzionale solo a nuovi sprint, bagnati anche da una dose di acidità spesso presente nel disco, gli Upchuck ci presentano il nuovo “Bite the Hand that Feeds” come meglio non potrebbero, prima di trovare un altro brano decisamente efficace in “Crashing”, che approda in più di un passaggio dalle parti dei Pixies. Se l’intro si colloca già a breve distanza dai bostoniani, sono in generale le linee di basso groovy a suggerire una certa ispirazione da Kim Deal e soci, compreso un vago afflato pop che fa coincidere il brano con l’unico vero e proprio cambio di ritmo dell’intero album.
La parte centrale del disco, in generale, è quella dove arrivano in fila i brani più ispirati: “Toothless”, in grado di sintetizzare qualche lieve influenza indie rock e un’attitudine ancor più muscolare che può lambire i confini dello sludge, quindi “NYAG”, che sembra finire addirittura in orbita Ramones. In generale, comunque, la somma di questi elementi comunica anche un certo effetto nostalgia, con echi del punk anni Ottanta che riappaiono non troppo di rado. Anche il ruolo giocato da Ty Segall è stato chiaramente importante: il gusto del polistrumentista di Laguna Beach per i suoni vintage è cosa nota.

Il disco, inoltre, è stato registrato in presa diretta in appena cinque giorni, quasi a voler corroborare quel senso di frenesia e urgenza che traspare spesso e dai suoi ritmi pressoché perennemente serrati, con una ostinata vocazione lo-fi che incarna lo spirito di questo sound. Le altre principali influenze degli Upchuck si possono scorgere sul finale, con le soluzioni di “Long Gone” che si avvicinano a schemi e traiettorie dal sapore sludge come nessun altro brano del lotto, mentre il grunge decadente di “It Comes” è l’atto conclusivo del lavoro.

“Bite the Hand that Feeds” conferma il talento degli Upchuck con una sequela di brani che senz’altro conquisteranno i fedelissimi del genere in qualche polveroso locale americano (ed evidentemente non solo). Il contributo di Ty Segall è riconoscibile, ma il quintetto di Atlanta riesce a rimanere fedele a sé stesso, scegliendo – se possibile – un approccio ancor più ruvido e muscolare di quello di “Sense Yourself”. Per KT e soci, l’ultimo passaggio sulla strada verso la consacrazione, e cioè per diventare punti di riferimento nella storia contemporanea del punk, è un labor limae che renda la proposta più imprevedibile e variegata sulla lunga distanza, sintetizzando in maniera ancora più fluida quelle influenze classiche, grunge, garage e persino sludge che già oggi sono in grado di emergere più o meno distintamente.

69/100

(Peppe Lippolis)