La fisarmonica e il riverbero più lungo del mondo: l’incontro con Paolo Forte

«Ti dispiace se ci spostiamo? La musica mi infastidisce».

L’incontro con Paolo Forte comincia così, con una richiesta solo all’apparenza in contraddizione con il suo mestiere di musicista, ma rivela subito che non ama definirsi tale.

Ventisette anni di esperienza con la fisarmonica (su trentacinque: è nato in Friuli-Venezia Giulia nel 1988), innumerevoli concerti in Triveneto e in Europa, compositore di colonne sonore di film, documentari e spettacoli di teatro, oltre un decennio di esplorazioni in ambienti dall’acustica particolare come centrali elettriche, condotte, bunker.

Eppure: «Musicista mi sembra un po’ troppo. Sono anche meccanico. Aggiusto carburatori, smeriglio, saldo il ferro, taglio la legna. E tutto questo mi dà egual piacere che il suonare».

Cacciaviti, tute protettive, stivali in gomma, luci frontali, sono alcuni degli strumenti – insoliti nel mondo della musica -, necessari per la realizzazione di un ambizioso e sperimentale lavoro attorno al riverbero, fenomeno acustico che lo appassiona (quando naturale) perché «arrotonda e amplifica il suono».

Una ricerca confluita in Tempo, suo più recente album.

La scintilla che lo ha spinto a percorrere con volontà e determinazione duemilacinquecento chilometri fino al cuore delle Highlands scozzesi è stata la scoperta di quell’«eterno, tremendo, fantastico» minuto di riverbero, «il più lungo misurato al mondo». Lo racconta con occhi che fremono commossi.

«Da 50 a 112 secondi circa, in funzione della frequenza emessa (suoni più acuti restano nell’aria per meno tempo), e un delay (ovvero la velocità di rimbalzo tra l’emissione del suono e il ritorno) di circa 600 ms».

Condizioni acustiche estreme, che diventano motore e ossessione per raggiungere l’ambiente che le detiene.

«Ho ricercato strutture in Europa con caratteristiche acustiche eccezionali. Ed è stato così che mi sono imbattuto in questo complesso scozzese di serbatoi sotterranei realizzati durante la Seconda guerra mondiale e utilizzati dalla marina militare inglese per conservare pesante olio navale per la flotta».

Quattro lunghi anni separano il desiderio istantaneo di esperire l’ancora mai sperimentato, dalla possibilità di esaudirlo. Ma la ricerca dei contatti, la lunga corrispondenza, l’ottenimento di permessi e autorizzazioni, l’organizzazione logistica della spedizione e il viaggio vero e proprio, per quanto faticosi, si rivelano la parte più semplice dell’esperienza, condivisa con i fonici Emanuele Pertoldi e Andrea Peluso.

La vera sfida è l’esecuzione musicale.

Il fisarmonicista Paolo Forte con i fonici Andrea Peluso ed Emanuele Pertoldi. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso
L’accesso alla cisterna: un varco di quarantacinque centimetri di diametro. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso
La fisarmonica viene smontata in due parti per poter passare attraverso il varco. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso
Dall’altra parte, all’interno della cisterna, lo strumento rimontato. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso

«In quel luogo, qualunque suono (la voce, il passo, la goccia che cade) resta nell’aria per un tempo interminabile. Una goccia cade per un minuto. Come potevo immaginare cosa sarebbe stato trovarmi lì?»

La musica diventa necessariamente pura improvvisazione.

Mi mostra una fotografia che lo ritrae di profilo, scattata dopo avere affrontato un viaggio di quattro ore di auto dall’aeroporto di Edimburgo, percorso un sentiero sterrato circondato dalla vegetazione, attraversato una porta blindata, aperta e risigillata alle spalle in modo laborioso, ed essersi inoltrato in un tunnel di duecentocinquanta metri dentro la montagna. È intento a osservare il varco tanto atteso, unico accesso alla cisterna: un tubo di quarantacinque centimetri di diametro.

«Eccomi finalmente, ho pensato. Subito dopo: che avevo paura. Non esisteva alcun album da registrare, solo la speranza di riuscire a realizzarne uno».

Prima di poterci provare, Paolo Forte deve essere letteralmente infornato insieme alla sua fisarmonica a bottoni, Victoria, smontata in due parti per riuscire a passare.

«Sono strisciato dentro».

Dall’altra parte, una fredda cassa di risonanza in calcestruzzo di duecentoquaranta metri per quattordici di altezza e nove di larghezza dall’odore nauseabondo. Le pareti impregnate di olio pesante, così come il pavimento, ricoperto di pantano denso.

L’allestimento dell’apparecchiatura per la registrazione ha richiesto un lavoro meticoloso e complesso.

Innanzitutto la ricerca del «centro geometrico del serbatoio dove collocare una seduta affinché il suono rimbalzasse sulle pareti opposte dell’ambiente in maniera simmetrica». Poi tutta la strumentazione è stata resa impermeabile.

«Per ogni treppiede, ogni gamba della sedia, qualsiasi cosa avrebbe toccato terra, è stata necessaria una schermatura in nylon», e tutti i cavi per la registrazione (stereo binaurale frontale, omnidirezionale e di linea, con microfoni interni allo strumento), sospesi su piantane trovate in loco.

Con un solo obiettivo: poter riprodurre il più fedelmente possibile, per il futuro ascoltatore, la percezione acustica del luogo.

L’intera esperienza è durata cinque giorni.

«Si stava circa cinque o sei ore all’interno, a una temperatura di 11°C e un’umidità del 90% circa. Le pause erano una o due perché era molto complicato e macchinoso uscire. Ogni sera, prima di andarmene, sigillavo la fisarmonica dentro alla custodia, a sua volta richiusa all’interno di un sacco ermetico insieme a sali igroscopici per assorbire l’umidità. Non è stato semplice “abbandonarla” in quel luogo infernale, ma ho ritenuto questa soluzione la più sicura per lo strumento, invece di molteplici smontaggi e rimontaggi in condizioni decisamente non idonee».

L’immensa cisterna completamente buia.

«L’illuminazione a batteria era ridotta all’essenziale. Anche la comunicazione con i fonici, che durante le sessioni di registrazione erano costretti a stare immobili a centoventi metri di distanza da me e in assoluto silenzio, per ovvie ragioni acustiche avveniva soprattutto via segnali luminosi. Con una difficoltà ulteriore: io non sapevo quanto sarebbe durata ciascuna improvvisazione».

Il tempo totale di registrazione è di circa 190 minuti.

«Con “totale” intendo il tempo netto di improvvisazione, di registrazioni già epurate dai tempi morti, silenzi iniziali, colpi di tosse. Una ulteriore scrematura è servita per individuare i 71 minuti e 84 secondi di musica, tradotti in otto brani, che potessero essere contenuti in un CD».

La selezione finale delle tracce non è stata semplice.

«Per la prima volta mi sono trovato in una condizione limite. La fisarmonica è una scatola finita, capace di generare infinite combinazioni sonore che, durante un concerto, sono totalmente libero di esplorare. L’unico vincolo che mi pongo in un live è che l’ascolto sia accessibile a tutto il pubblico, che può essere più o meno di settore. Quindi tendo a un risultato non eccessivamente ardito o minimalista. In questo caso invece – e non solo a causa dell’assenza di pubblico -, ho dovuto sperimentare, essendo stato costretto a suonare con quella che definisco “l’ombra del mio passato e la proiezione del mio futuro”».

Il tempo del musicista è il presente. La sua un’arte effimera, diabolica. Il suono, appena generato, se ne va.

Ha inizio l’allestimento per la registrazione. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso
Durante la registrazione. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso

Paolo Forte, qui, utilizza il tempo come materia tangibile e malleabile. «Ho suonato come stessi dipingendo a pennello». Una composizione per addizione di strati e cromie, dove il gesto precedente si sovrappone al gesto futuro.

«Non solo la nota o l’accordo, rimangono sospesi. Restano le armoniche, che si rinforzano l’un l’altra a creare un coro». Il presente si dilata, galleggia, non trova quiete, così come il suono. Entrambi in trappola di uno spazio sotterraneo e abbandonato.

«Il luogo stesso ha deciso e diretto la mia esecuzione. La fisarmonica è stata solo l’innesco per lo strumento più grande che io abbia mai suonato».

La torcia frontale dell’esecutore si accende e si spegne. Tre lampi danno il segnale di via alla registrazione, che avviene nel buio totale. Nessuna nota prima della prima, un’improvvisazione di prova non è contemplata.

«Volevo essere io per primo sorpreso dall’effetto sonoro. I miei polpastrelli conoscono a memoria la geografia dello strumento, le sue possibilità. Eppure la prima improvvisazione, Alla Luna, mi ha catapultato in una esplorazione inedita. Ero completamente disorientato, incredulo. Dentro al suono. E l’album restituisce in maniera fedele l’acustica nella quale ero immerso: nessun effetto è stato applicato alle registrazioni».

Un’esperienza non replicabile, dunque, sul corpo di Paolo Forte, attraverso il corpo della fisarmonica e dentro e grazie al corpo dell’architettura. Una musica non replicabile: un paradosso per un musicista.

«Non sarà possibile renderla concerto».

Tempo fuori dal tempo, Tempo incorporato nel tempo. Tempo come uno scioglilingua.

Accade nella pancia, inforna anche noi, dentro alle nostre viscere, è da degustare con le cuffie in religioso silenzio, a occhi chiusi: bisogna essere capaci di abbandono, per lasciarsi trasportare lontano, giù, in luoghi senza nome, senza paese, senza confini, in spazi senza tempo, eterni – immanenti.

«Posso suonare su un palco o in una chiesa, dentro a un bunker, per il pubblico, per una persona sola o per il semplice gusto di farlo. Posso suonare ovunque. È il luogo che determina la mia musica. E mi emoziona pensare che quel luogo esiste anche adesso, come in attesa, in un immobile silenzio».

Alcuni link utili

L’interno della cisterna. Questo scatto è diventato la copertina dell’album. foto di P. Forte E. Pertoldi e A. Peluso

(Chiara Burello)

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