[#tbt] La nuova edizione deluxe di “Tim” dei Replacements: il testamento di un classico senza età né confini

«Wait on the sons of no one…»

Finalmente, sta sussurrando qualcuno da qualche parte nel mondo. Finalmente un nuovo mix di Tim, che ridà freschezza a un album la cui grandezza non è mai stata messa in dubbio ma che necessitava di una ristampa attenta e “attualizzata” per consegnare ai posteri una nitida diapositiva dei Replacements subito dopo l’uscita del loro capolavoro Let It Be nel 1984, una band che era diventata proprio in quei mesi il nome più rilevante nella scena alternative statunitense e che poteva iniziare una scalata verso il mainstream che volle invece accuratamente evitare. Qualche mese fa, quando si annunciava la ristampa deluxe del loro diamante del 1985 sottotitolata “Let It Bleed”, la cosa non colse affatto di sorpresa: nel 2020 a ricevere un trattamento pressoché identico fu l’altrettanto cruciale Pleased to Meet Me, il primo disco dei ‘Mats registrato senza Bob Stinson, che era uscito due anni dopo Tim; successivamente, nel 2021, la stessa sorte toccò anche al seminale Sorry Ma, Forgot to Take Out the Trash, il debutto di Paul Westerberg e soci, anch’esso pubblicato in una lussuosa riedizione.

Le sorprese di questa ristampa in 4CD non finiscono ma iniziano qui, a partire da come l’album suona adesso. A far gridare al miracolo questa volta, infatti, è, più di ogni altro contenuto, l’album originale nel nuovo mix curato da Ed Stasium, storico producer e audio engineer che lavorò con Ramones e Talking Heads, celebre per la sua pulizia del suono e per l’attenzione che da sempre dedica ai dettagli. Per quanto i contenuti extra – un disco di rarità incise in studio quell’anno e un travolgente live registrato a inizio ’86 – siano eccelsi, l’ascolto del nuovo mix è un vero piacere per le orecchie e dimostra definitivamente che Tim è grande tanto quanto il suo predecessore; esso fotografa i Replacements, nell’estate del 1985, concentrati e affiatati e al picco della loro ispirazione, in una sorta di trance artistica tanto produttiva quanto era stata un anno prima quella che diede vita a Let It Be.

Certamente, dopo l’annuncio dell’uscita, a incuriosire studiosi e appassionati del gruppo è stata anche la certezza di poter mettere le mani su un ulteriore concerto integrale della band, quello tenuto al Cabaret Metro di Chicago nei primi giorni del 1986, e sulle preziosissime sessioni in studio del gennaio del 1985 insieme ad Alex Chilton dei Big Star, uno dei punti di riferimento di Westerberg e colleghi. Chilton sarebbe stato al loro fianco anche durante l’incisione di Pleased to Meet Me, che avrebbe contenuto una canzone dedicata proprio a lui. In questo grumolo di rarità l’attenzione è tutta su “Can’t Hardly Wait”, brano magistrale che venne scartato da Tim e venne poi reinciso due anni dopo per essere incluso su Pleased to Meet Me con la chitarra di Chilton accanto ad archi e fiati (che la band non voleva). Uno dei classici più amati da critici e fan, “Can’t Hardly Wait” ha qui la stessa potenza che ha sull’album uscito due anni dopo; mantiene, in aggiunta, uno stato grezzo che è unico nel suo genere e sembra muoversi sospesa nel tempo e nello spazio in qualche universo parallelo. È una canzone di cui i Replacements non ci avrebbero privato, fortuantamente; ma la magia che questi take, alcuni già editi, altri inediti, come la versione arrangiata col violoncello, conservano ha un fascino tutto suo. Westerberg rimase profondamente deluso da ogni versione del brano e lo abbandonò temporaneamente.

Nel frattempo per la produzione di Tim veniva scelto Tommy Ramone. Una puntuale rimasterizzazione del suo lavoro è contenuta nel secondo disco del box e non aggiunge né toglie nulla al Tim che abbiamo ascoltato (e apprezzato) per quasi quarant’anni. Di quelle giornate in studio con Chilton nulla finì incluso nell’album; tuttavia la chance di osservare in quel preciso momento la progettazione e la lavorazione di un discreto numero di brani, molti dei quali, reincisi, finirono poi su Tim, è più unica che rara. Il terzo disco del box, intitolato Sons of No One: Rare & Unreleased, regala svariate chicche, come i demo di “Little Mascara” e di “Bastards of Young”, clamorosamente limpidi e scoppiettanti come finalmente suonano anche nel nuovo mix di Stasium. La loro potenza è rivelatoria e spiazzante e si incrocia con gli interessanti work in progress di “Hold My Life”, di “Left of the Dial” e del tagliente outtake “Nowhere Is My Home”, prodotta anch’essa da Chilton nella sua versione “finale” pubblicata l’anno dopo su una compilation di rarità del gruppo uscita unicamente in Gran Bretagna.

Il box contiene anche un ampio scritto di Bob Mehr, biografo del gruppo e già vincitore di due Grammy per le liner notes di altri due box set, Dead Man’s Pop degli stessi ‘Mats, che si occupava di “riesaminare” Don’t Tell a Soul e il periodo storico che lo produsse e che lo seguì, e la recente ristampa ampliata di Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco. Il merito di questo box è in particolare quello di non riscrivere la storia di un disco, cosa che sarebbe stata inutile e niente affatto corretta, ma quella di mostrare i percorsi che il gruppo stava prendendo, anche quelli che presto decise di abbandonare, documentando i fatti e non imponendo una propria visione, e di rivisitare con fedeltà e con passione il sound dell’album originale migliorandolo.

Come si diceva, a colpire più di ogni altra cosa, anche più dell’ottimo live presente sul quarto disco del box che vede i Replacements particolarmente concentrati ed energici, è la rilevanza che un album come Tim ancora oggi assume e che il mix di Ed Stadium nel primo disco della ristampa testimonia. A spiccare una volta di più è la sua impossibilità a essere ricondotto a uno stile o a un genere chiari: è punk, è alternative rock, è pop radiofonico ma profondo e poetico à la R.E.M., è classic rock and blues à la Stones; è un’anarchia ben governata che permette al gruppo innumerevoli metamorfosi, un’anarchia innata e allegra che è sia quella della band nel suo insieme sia quella dei suoi singoli elementi. Il nuovo mix di Stasium fa emergere quanto Tim sia rilevante e giovane ancora oggi.

La produzione originale di Ramone, infatti, che pure ci è piaciuta per decenni, presenta non pochi difetti, su tutti il suono “impastato” di molti degli strumenti che sembrano (con)fusi tra loro, nel tentativo, forse, di far emergere quella gioiosa anomalia rappresentata da un gruppo rock tendenzialmente anarcoide che non lasciava, però, niente al caso, soprattutto grazie al talento e al modus cogitandi e operandi di Westerberg. Il tentativo – riuscito – del box è di dimostrare – se mai ce ne fosse stato il bisogno – che i ‘Mats appena dopo Let It Be erano pieni dello stesso coraggio e delle stesse grandi ambizioni che popolavano l’album precedente. Il mix di Stasium rende giustizia a ciò e non pone più Let It Be come l’unico gradino più alto che la band abbia raggiunto: Tim non demerita di essere al suo fianco. “Little Mascara”, che ha un’outro più lunga, e “Kiss Me on the Bus”, brani che anticipano le evoluzioni che un certo indirizzo di alt-pop e una certa linea di punk-rock avrebbero preso negli anni successivi, non sono mai apparse così lucenti; altrettanto rischiarate appaiono colossi come la romantica ballata “Here Comes a Regular” e le graffianti e ciniche “Dose of Thunder” e “Lay It Down Clown”; punti di snodo del disco come l’apertura incandescente “Hold My Life” e la camaleontica “Left of the Dial” aumentano ancor di più la loro indiscussa potenza.

Per tutti questi motivi il mix di Stasium è grandioso; ma, ancor prima di tutto, va ascoltato perché dipinge di fronte ai nostri occhi l’urgenza di cui i ‘Mats inondarono Tim. Per tutto l’album Westerberg sembra posseduto da un daimon e pare avere realmente un fuoco dentro di sé mentre canta ogni sillaba con una convinzione e una fermezza tali da atterrire e ammaliare chiunque si imbatta in lui. Riscrivere il concetto di cosa fosse un disco alt-rock non era forse tra gli scopi dei Replacements, ma Let It Be e Tim questo fecero. In quegli anni Westerberg e soci stavano cercando di costruire un punto di svolta artistico non soltanto per loro ma per il “movimento”, un movimento che non è mai realmente esistito, a cui non pensavano né volevano appartenere, ma che avrebbero segnato e cambiato. E da seguaci di Alex Chilton, degli Stones, dei Damned e di tanti altri maestri divennero loro stessi maestri per altri. Un ruolo complesso e troppe volte ingrato, che però garantì loro di entrare a far parte di un canone che mai avrebbero immaginato di meritare: sempre «sons of no one», certo, ma con stile (e tanto talento).