RYUICHI SAKAMOTO, “12” (Milan Records, 2023)

Nel corso di una terapia psicologica, c’è un “consiglio” che ogni tanto viene elargito del terapeuta al suo paziente: quello di tenere un diario giornaliero dove rovesciare su carta i pensieri della giornata. Il metodo del “journaling” permette al paziente di acquisire consapevolezza con le proprie emozioni e, in sostanza, con buona parte del suo essere, aiutando cosi il processo di individuazione e conoscenza di sé. Ma anche l’arte consente questo notevole elastico emotivo, permettendo da un lato la fuga dal mondo e dall’altro l’introspezione in sé stessi, assumendo spesso e volentieri un effetto terapeutico: e cosi, anche la musica può diventare un equivalente sonoro di una nota sul diario dell’esistenza.

Ryuichi Sakamoto si trovava da tempo in una condizione di estrema fragilità, in uno stato che era ormai arrivato all’accettazione: mi piace quindi pensare che nell’ultimo disco della sua vita, “12”, il riverito compositore giapponese abbia voluto lasciare a noi ascoltatori le sue ultime note “diaristiche”, conscio che ormai il suo tempo su questa terra stava per compiersi. Stava suonando le ultime note della sua vita, vissute senza eccessivo dramma o paura ma abbracciando, con lucidità e misura, il suo essere nel momento. Si perché in queste dodici meditazioni non egualmente divise tra pianoforte e sintetizzatore (salvo un’eccezione di cui scriverò alla fine) sono infuse di tutto ciò che era Sakamoto in quegli attimi: un uomo minato nel corpo ma sereno nella mente, fermo nel conoscersi fino in fondo, suonando fino all’ultimo.

Ryuichi Sakamoto (1952-2023)

Cosi, ogni traccia ha il titolo del giorno in cui è stata registrata e nient’altro. Di immagini letterarie non ce ne è più bisogno; tutto appartiene alla musica, e tutto la musica tocca. A volerle descrivere, le note di “12” compongono un abisso argentato, un pozzo che scava nelle profondità della terra e dell’animo; è una nitida messa a nudo dell’uomo, in un incontro tra carne – il respiro dell’autore che compare qui e lì tra le note, il danzare pensoso delle dita sulla tastiera, gli scricchiolii causati dal corpo in movimento – e spirito – tutto il resto – che sgorga dalle zone più remote della coscienza, diventando vertigine. Sakamoto sembra trovare le note da luoghi che sono un altrove rispetto a dove esse vengono a trovarsi normalmente, come se la consapevolezza di essere giunti ormai alla fine apra le porte ad una stanza interiore che emerge dall’inconscio solo in quel momento. Note – e silenzi – che non si può fare altro che mettere sul pianoforte, a testimonianza di un viaggio ora cristallino ora più cupo, così come sono certe corde dell’interiorità, capaci di far vibrare in sé stesse l’essenza di una vita.

Il tempo è forse la risorsa più preziosa di cui disponiamo: e sembra quasi di percepirlo anche nel disco, questo scorrere del tempo della vita, quando dall’ottava traccia in poi – l’unica con un titolo vero e proprio, “Sarabande” – scompaiono le lunghe dilatazioni sonore e spuntano dialoghi più brevi, vere miniature per pianoforte che si snodano con la saggezza di chi sa dire tutto con poche parole.

Ormai il fluire del qui e ora si sta esaurendo, e l’anima è pronta a prendere il volo, ad intraprendere il suo viaggio finale. L’album si chiude con quell’eccezione di cui vi scrivevo poco sopra: “20220304”, per percussioni sole. Così ha deciso di uscire di scena uno dei più grandi compositori del nostro tempo: con un leggero soffio che accarezza il metallo; con un suono tanto terreno quanto evocativo del trascendente. Ora Sakamoto è diventato vento.

Arigatò, Ryuichi!

77/100

(Edoardo Maggiolo)