Con le sorelle Labèque piovono emozioni al Vicenza Jazz 2023

Il Teatro Olimpico di Vicenza, a pochi istanti dal concerto.

#Village Avanguard

Katia e Marielle Labèque, Teatro Olimpico di Vicenza, 14 Maggio 2023

Il prologo di questa piccola storia è che le sorelle francesi Katia e Marielle Labèque, duo pianistico “a quattro mani” di formazione classica e contemporanea tra i più rinomati al mondo, avrebbe dovuto esibirsi esattamente un anno fa nell’eccezionale – è proprio il caso di scriverlo – cornice del Teatro Olimpico di Vicenza, e il sottoscritto non si accaparrò il biglietto. (S)fortuna volle che il concerto venne rinviato di un anno; alcuni spettatori non pazientarono tanto a lungo, ed eccomi qui a raccattare un biglietto dalla spazzatura, pronto a sedermi sulla poltroncina di un incauto rinunciatario. Si sa, l’occasione fa l’uomo ladro!

Piove! Mi intrufolo di fretta nel Teatro Palladiano e, come sempre, vengo sbaragliato dalla bellezza di quella che è una delle più preziose gemme architettoniche della città berica, lasciate lì dal Palladio con vergognosa abbondanza.

Due pianoforti posti uno affianco all’altro al centro della scena; le luci si abbassano e appaiono sul palco le due sorelle, di una somiglianza a dire il vero leggermente inquietante. Ma è solo un attimo d’ironia poco prima che le note delle “Six épigraphes antiques” (composte nel 1914) di Claude Debussy disegnino atmosfere in equilibrio tra il sogno e il mistero. L’esecuzione delle interpreti è di grazioso rigore, ed è difficile non lasciarsi sedurre da quelle progressioni dall’aria evanescente tipiche del compositore francese, sempre alla ricerca di quel “misterioso accordo che lega la natura alla nostra immaginazione” (sono parole dello stesso Debussy).

Il secondo numero in programma è la “Fantasia” in Fa Minore di Franz Schubert (1828), e qui il suono si fa più umbratile; un’epopea di Romanticismo in 20 minuti, tra arpeggi argentati e fragorose esplosioni dinamiche. Simbolo in note di un cuore inquieto e pieno, la “Fantasia” schubertiana è una travolgente dedica ad un amore impossibile; per spietata ironia, per essere eseguita dev’essere suonata in due…

Dopo queste portate, una pausa è ben gradita per “ripulirsi” l’orecchio; le Labèque ritornano sul palco con la giusta calma e ci rispediscono ai primi del ‘900, con la suite “Ma Mére l’Oye” di Maurice Ravel, ispirata a racconti per bambini del ‘600 francese. Qui i toni sono favolistici, più intimi e privati rispetto alla versione orchestrale – sempre realizzata da Ravel – della stessa composizione. Ma non si scade mai nell’infantilismo: la musica è tenera, rotta solo qua e là da momenti di minacciosità oserei scrivere pedagogica, come nuvole di passaggio qua e là; tutto uno sgorgare di suono limpido e sicuro per arrivare alla gioiosa apoteosi finale di “Le Jardin Féerique”!

L’ultima parte di serata vede il duo condurre il pubblico oltreoceano, con brani presi in prestito dal musicalWest Side Story” di Bernstein e da Philip Glass. Abbandonate le flessuosità europee, ci troviamo di fronte alla “nuova musica”, sfrontata e viscerale, degli Stati Uniti del dopoguerra; e quando la partitura di Bernstein flirta sfacciatamente con il jazz, il pubblico reagisce battendo il piede a tempo di ragtime sul legno del teatro. Il vigore di questa performance mi permette di accennare ad un aspetto più tecnico: per tutto il concerto le sorelle Labéque mettono in mostra una vera simbiosi, distanziandosi e completandosi con quella naturalezza che è figlia dell’esperienza.

Applausi, bis e controbis. Le luci si riaccendono e il pubblico pagante defluisce tranquillamente… io rimango per un po’ seduto ad ammirare il Teatro e quel gioco prospettico che ho davanti agli occhi, scherzo allucinante che mi diverte ogni volta che lo vedo. Poi esco e mi incammino sotto la pioggia notturna: passo davanti ad un altro capolavoro Palladiano e mi fermo un’oretta in un locale jazz – tentazione d’amore troppo forte, scusate -; infilo la chiave nella toppa, bevo un bicchiere e mi butto a letto. Penso… è stato proprio un bel fuori programma, e mi addormento.

(Edoardo Maggiolo)