DEPECHE MODE, “Memento Mori” (Columbia Records/Sony Music, 2023)

Se una volta si usavano i tour anche e soprattutto per vendere i dischi è evidente che oggi si fanno i dischi per dare (anche e soprattutto) un senso ai tour. Lo scrivo subito: penso che quest’ultima cosa si applichi solo in minima misura ai Depeche Mode. Credo che proprio in studio si svolga una parte preponderante della vita di Martin Gore e che lì, insieme a Gahan (che ovviamente è animale da palco) si celebri un rito nero, profondo e imprescindibile che da diversi decenni si chiama Depeche Mode. Quindi credo che, a dispetto della motivazione “insinuata” sopra, i Depeche Mode facciano dischi proprio perché ritengono di esistere dentro quei dischi. I dischi vecchi ma anche quelli “nuovi” (poiché nel dopo “Ultra” non si sono mai registrate autentiche cadute di stile).

Immagino che quello che è capitato lo scorso maggio con la morte di Fletch non abbia intaccato l’essenza di questo meccanismo spontaneo e non abbia suscitato pesanti incertezze sul futuro immediato della band. Viene in mente un’altra storia, tutta diversa, di dieci anni prima. In quel caso (sempre maggio) muore, in modo purtroppo annunciato, Adam Yauch dei Beastie Boys. In quel caso, non servono settimane o giorni ma sono sufficienti minuti per far dire agli altri due del terzetto che i Beastie Boys da quel preciso istante non esisteranno mai più. Ma sono solo storie diverse. Ha senso quella storia del 2012 come ha senso questa. Ci sono ruoli, stili, persone, dinamiche interne, significati che rendono non solo plausibile ma anche necessario l’andare avanti. E così come ci sono storie, persone, traiettorie che rendono indispensabile fermarsi. Questo non vale solo nella musica e andrebbe tenuto presente per non essere giudicanti, mai.

Anyway, che album è “Memento Mori”, con questo titolo che evoca così da vicino la caducità di tutto, così come la ricchezza del presente e delle sue opportunità? È un disco omogeneo, che cerca la hit pochissime volte (“Ghosts Again” fa il paio con “Precious” tra i classici dei Depeche “maturi”) e si muove su coordinate industriali, ovviamente oscure (“My favourite Stranger”). La via è spesso quella (riuscita) di un blues sintetico di cui Gore e Gahan possono essere titolari di Cattedra (“People Are Good”). Si tratta di un lavoro pianificato ben prima della morte di Fletcher e di cui lui avrebbe dovuto far parte nelle fasi di registrazione (la stesura è in gran parte figlia della pandemia).
È preziosa la collaborazione con Richard Butler in fase di scrittura (nella stessa “Ghosts Again”) e di Marta Salogni al mixaggio (coautrice della conclusiva “Speak To Me”).

Probabilmente è un lavoro più ispirato e determinato del penultimo, pur buono, “Spirit” (2017). L’alone buio e la relativa consapevolezza danno un’anima molto consistente e spessa a “Memento Mori” e ne fanno un disco ben riconoscibile. Così come evocativa d’impatto è la cover con questo doppio paio di ali d’angelo. Omogeneo, come detto ma non monocorde, certamente. C’è una solennità che lo pervade. Se “Ghosts Again” allude magnificamente ad una cura melodica relativa alla prima parte di carriera, il resto del lavoro è abbastanza ancorato all’immagine sonora che la band ha adottato negli ultimi lustri. Stabilire se poi sia davvero o no il più bel disco dei Depeche Mode tra quelli di questo ultimo quarto di secolo non è cosa trascendentale.

C’è un passaggio dolcemente surreale, in mezzo a un’intervista dei due a KROQ-FM dove si parla di cosa penserebbe Andy Fletcher di “Memento Mori” se potesse esprimersi. Immaginando e ammettendo anche qualche puntualizzazione di rito, rispondono che lui era quello che amava più di tutti di essere nei Depeche Mode. Dichiarandone, quindi, l’approccio appassionato, da fan (favorito, aggiungerei io, proprio dal suo ruolo proverbialmente poco centrale). E i sorrisi d’intesa e d’orgoglio che fanno da sfondo a questo passaggio spiega meglio di tante parole l’oggi della band, il senso del lavoro che è appena uscito e il fatto stesso che sia uscito. Il punto è che se tutto è così transitorio, ogni cosa allora conta tantissimo.

75/100

(Marco Bachini)

*immagine di anteprima di Anton Corbijn