Samuele Conficoni Awards 2022

Al ritmo di un brano estivo e pieno di ritmo come “DESPECHÁ” di Rosalía, contenuto nell’edizione ampliata di MOTOMAMI, il disco che la cantante catalana ha pubblicato quest’anno e che a un certo punto incontrerete nella mia lista dei 25 dischi imperdibili usciti quest’anno, salutiamo un 2022 fatto di terremoti e di quiete, un po’ impacciato e un po’ insolente, variabile e incostante. Un timido tentativo di ritornare alla vita prepandemica e a riscrivere, in parte, le sue regole strambe, ad accentuare o a mitigare le sue folli abitudini, a riscrivere le sue routine infernali, a riconsiderare le sue incongruenze più forti è stato, in parte, questo strampalato e complicato anuno che sta per giungere al termine, un anno che in ambito musicale era cominciato con passo tiepido e pigro, ancora intorpidito dal gelo invernale, ma che è sbocciato ben presto con dischi di grande spessore e che ha poi saputo temprarsi grazie al vigore estivo, ingiallendosi infine in un autunno un po’ apprensivo. È stato un anno sempre in bilico tra speranze di rifioritura nel nostro giardino del tempo e timori irrequieti nascosti appena dietro i cancelli. Si rincorrono, come flash improvvisi mentre di notte in auto si attraversa una metropoli, conflitti sociali sempre più infuocati, terrori batteriologici ormai insiti in noi, guerre in Europa e non solo, crisi energetiche e climatiche, intolleranza e insicurezza. L’arte si fa carico di tutte le ferite del mondo e le racconta a suo modo, che si tratti di un viaggio interiore o di un percorso globale o magari di entrambe le cose. Dal particolare all’universale, dal monodico al corale, è stato un cammino ambizioso che gli artisti hanno saputo percorrere invischiandosi nei più diversi generi, nelle più sorprendenti lingue, nei sentimenti e pensieri più vividi. In tanti anche quest’anno hanno creato qualcosa di considerevole e di degno delle nostre attenzioni, provando a rendere conto del tanto di bello e di originale che ancora c’è e resiste, come una nave che si muove con coraggio nonostante la tempesta in arrivo.

25. Earl Sweatshirt – Sick!

Earl Sweatshirt riesce a non deludere mai le aspettative. Il suo essere fedele a quel suono ruvido e a quei beat ossessivi che sin dalle origini caratterizzano i suoi progetti indicano la direzione di un percorso artistico che è pienamente in linea con l’hip-hop americano più artsy del momento pur venendo al tempo stesso consegnato quasi grezzo al pubblico, come se fossimo noi, in ultimo, a dover lavorare il marmo nei punti che l’artista ha lasciato volutamente intatti. Sick! è un lavoro ambizioso e oscuro, un ponderare critico e severo sul mondo postpandemico e su tutti gli orrori che affollano il nostro vivere presente, un claustrofobico tran tran che non ci permette di riflettere su quello che è veramente importante per noi. Nella title track, fianco a fianco alla voce di Fela Kuti, che regala un outro straordinario al pezzo, Earl canta “Fuck a second chance, I won’t let the devil in”, in una trama chiara e netta che cerca di dividere il male dal bene mentre il rapper prova a scendere a patti coi suoi demoni interiori. In soli 25 minuti Earl, come solo lui sa fare, crea un universo lucido che riflette i suoi stessi lineamenti. Le melodie, i sample e il flow sono come al solito caldi e avvolgenti, ed Earl non lascia al caso nemmeno un singolo verso: “Consolidate the cream, then I’m headed home”, canta nella malinconica “Fire in the Hole” su un beat tentacolare e nervoso. “Bleed the vein ’til nothing left”, afferma in “Titanic”, come se stesse descrivendo viva voce il processo di creazione del suo Sick!.

24. Angel Olsen – Big Time

Il momento più doloroso e arduo della vita privata di Angel Olsen – da un lato la necessità di fare coming out, dall’altra la morte di entrambi i genitori – va a coincidere con l’ennesima metamorfosi creativa della trentacinquenne cantautrice: una corsa a ostacoli tra drammi e voglia di rinascita si crea davanti ai nostri occhi in mezzo a laceranti contraddizioni. Olsen costruisce un nuovo mondo tra macerie ancora fresche e tra i singhiozzi che si provano camminandovi in mezzo quando sono storia viva, quando ci toccano e ci parlano perché siamo anche noi parte di loro. In questo aridissimo deserto di emozioni indescrivibili si muove Big Time: le sue atmosfere country-folk sognanti si collocano in un contesto Americana finora ben poco esplorato da lei come da molti altri suoi colleghi, dove gli elementi pianistici e orchestrali sono centrali e fondanti, in piena continuità coi suoi lavori precedenti. “Well, I’ve tried to comе find you / But I just don’t know where to begin”, canta sommessamente Olsen in “All the Good Times”, mentre un sound immaginifico carica d’intensità la sua voce. “I’m losing, I’m losing”, ripete a sé stessa in “Big Time” mentre prova a descrivere il carico di vuoto e di incertezze che sente dentro di sé e intorno a sé. Big Time segue le corde spezzate di un amore perduto, di una mancanza incolmabile, di un senso di smarrimento che sembra non terminare. “I am the ghost now / Walking those old scenes / How can I go on?”, canta Olsen disillusa in “Go Home”. Sa perfettamente che le cose stanno proprio così. La musica non può cambiarle ma può aiutare ad affrontarle.

23. Kendrick Lamar – Mr. Morale and the Big Steppers

Se può sembrare inusuale – e lo è di certo – che un qualsiasi LP di Kendrick non si trovi tra i primi posti di una classifica album dell’anno in cui esso è uscito ciò si spiega se leggiamo questo lavoro, pur brillante, a tratti persino eccelso, alla luce dei precedenti, GKMC, TPAB e DAMN., che risultano picchi pressoché irraggiungibili. Kendrick lo sa benissimo ed è per questo che, pur mantenendo l’idea del concept album, si muove a ruota libera, dando voce a una forza centrifuga che conduce una nave pirata che decide di volta in volta, giorno per giorno, quale costa attaccare e a quale tesoro puntare. È un Kendrick “decentrato”, il che non è affatto un limite dopo tanti lavori così precisi e geometrici nella loro incontenibile universalità. Mr. Morale and the Big Steppers è un disco dalle molteplici forme, figlio in parte illegittimo dei suoi precedenti lavori. Qui Kendrick parte dall’universale per giungere al particolare in un sentiero che è opposto e complementare a quelli intrapresi in passato. Per capire come mai abbia atteso cinque anni per produrre un nuovo disco in studio occorre ascoltare a fondo, leggere tra le righe, prestare bene attenzione a quello che Kendrick dice ma anche a quello che tace, ai silenzi pieni di significato che sono sia reticenza sia meditazione. In Mr. Morale Lamar attraversa mille stati d’animo e indossa decine di maschere, esplorando il trauma del suo macrocosmo interiore alla luce di tutti i traumi del mondo, e capisce che ogni singolo gesto è mosso dalle stesse inquietudini e dalle stesse incertezze. “Take off the fake deep, take off the fake woke”, sbatte in faccia a noi e a se stesso in “N95”, liberatoria ruminazione su ciò che è accaduto negli ultimi folli anni. “The prophets abandoned, the law take advantage, the market is crashin’, the industry wants / Niggas and bitches to sleep in a box while they makin’ a mockery followin’ us”, continua, invasato, come un profeta nel tempio che trasmette i messaggi cifrati di una divinità. Mr. Morale è anche una presa di posizione netta nei confronti del pubblico: Lamar si rende conto che le responsabilità di cui è stato investito, quelle di portavoce del mondo afroamericano in tempi turbolenti come questi, non sono più ciò che cerca. Dopo aver dato infinite voci a chi non ne aveva neanche una, Kendrick deve cantare soprattutto per sé, per i suoi figli, per sua moglie, per trovare finalmente l’universo nel suo universo. È un percorso difficile, che può sfiduciare e confondere, e Mr. Morale è anche questo, e imbocca vicoli ciechi volontariamente, per mostrare a tutti che si deve poter sbagliare. “So I set free myself from all the guilt that I thought I made / So I set free my mother all the hurt that she titled shame”, canta in “Mother I Sober”, uno dei momenti musicali più alti dell’anno, reso indimenticabile anche grazie al featuring di Beth Gibbons dei Portishead. L’elenco inizia così, con questi versi imponenti, e raggiunge una “transformation” che determina un altro passo in avanti, e un’altra fase creativa, del grande genio di Compton.

22. Jenny Hval – Classic Objects

Jenny Hval sa disegnare paesaggi lunari che sembrano provenire da un futuro non troppo lontano quando la civiltà umana si sarà pian piano autodistrutta. Il suo cantautorato art pop sperimentale e vitreo dai sussulti cinematici e dalle prospettive ribaltate regala un’ulteriore perla, Classic Objects, fatta di assenze, di fantasmi, di apparizioni improvvise e di scomparse altrettanto rapide, un cimitero di splendore, come recita uno dei titoli dei brani del disco. “All things abandoned are following your steps / Associating from space to emptiness”, canta Hval in “Cemetery of Splendour”, avvolta da una nebbia di suoni e di voci sotterranee che rendono l’atmosfera intorno indistinta. Classic Objects è un coacervo di contraddizioni, di strade imboccate e poi subito ripercorse all’indietro nel labirinto di sentieri che ognuno ha nella sua anima. Hval canta di cosa significhi essere una donna indipendente oggi e di quanto ciò influisca nel suo percorso artistico. Non ha paura di mostrarsi indecisa, dubbiosa, incostante: solo accettandosi si può finalmente ritrovare sé stessi e abbracciare orgogliosamente la propria finitudine. La dichiarazione di poetica più precisa e sincera di Hval la si trova nella meravigliosa “Jupiter”: “I should relate somehow / I am an “abandoned project / But also a creature / Crisp and clеar like the desеrt”, canta Hval mentre è ricoperta da un magniloquente tappeto di percussioni dinamiche, di synth e di tastiere. L’avanguardistico outro mostra quanto Classic Objects possa essere prodigioso.

21. The Smile – A Light for Attracting Attention

Thom Yorke e Johnny Greenwood, cooptato Tom Skinner dei Sons of Kemet nel loro nuovo progetto, non sembrano avere alcuna intenzione di revitalizzare i Radiohead, e il progetto The Smile lo conferma ampiamente. Lo dimostra l’intesa che intercorre tra i tre sia in studio sia sul palco, per non parlare del fatto che gli stessi Sons of Kemet si sono presi una pausa per un periodo di tempo indeterminato, permettendoci di pensare che i The Smile sono qui per restare. Siamo di fronte al progetto extra Radiohead più convincente e ambizioso, sia per la qualità della musica sia per il labor limae e la disciplina che Yorke, Greenwood e Skinner vi hanno messo. Alla batteria Skinner dà un contributo fondamentale a questo nuovo sound, molto vicino ai Radiohead ma anche tanto diverso nell’approccio ai pezzi, sia per quanto concerne la loro scrittura che la loro esecuzione dal vivo. Per citare due termini greci che associamo all’ellenismo e alla sua letteratura, in particolare a quella callimachea, A Light for Attracting Attention ha al suo interno sia ποικιλία che πολυείδεια, vale a dire molteplicità di forme e di generi, una varietas che certamente ci aspettavamo ma che non era sempre evidente negli altri progetti extra Radiohead capitanati da Yorke. Dalle scariche elettriche della turbinosa “You’ll Never Work in Television Again” che cita il “nostro” (ahi noi) Bunga Bunga alle derive disperate di “Pana-vision”, dalle contaminationes afro-jazz di “The Smoke” con le linee di basso disegnate da Yorke (“Fela Kuti-sounding bassline” le ha definite qualcuno) che sembrano un mosaico bizantino alla bozza radioheadiana “Skrting on the Surface” finalmente compiuta e magicamente alienante, dalla velenosa e lacerante “Thin Thing” alla melanconica ballata “Free in the Knowledge”, il primo LP dei The Smile soddisfa ogni gusto senza porsi minimamente il problema di dover piacere per forza o di dover essere all’altezza del glorioso passato dei suoi membri fondatori, pur essendolo eccome, ma senza sforzo alcuno, nella maniera più naturale possibile.

20. Soul Glo – Diaspora Problems

La band hardcore di Philadelphia Soul Glo giunge al suo quarto album in studio, Diaspora Problems, il primo per la Epitaph, attraverso un percorso di maturazione continua ed esplosiva: nel tornado sonoro che è Diaspora Problems non ci sono neanche pochi secondi di pausa. Chi lo ascolta ne è letteralmente travolto. La band si muove come un organismo perfetto, con equilibrio e misura: è una macchina ben congegnata che rischierebbe di inciampare se venisse privata di un solo, minuscolo pezzo. Un’aggressione sonora che diventa presto anche fisica: il trio lo promette sin dall’inizio con tono minaccioso e feroce, ponendo una questione complicata e particolarmente contorta: “Can I pull up on myself and disclaim whoever else voice it is / That say my mistakes only why I exist too much and too loudly for me to question it?”. L’asticella è stata alzata, l’obiettivo è nel mirino, lo scatenarsi della bufera imminente. I quaranta minuti scarsi di Diaspora Problems sono ironici, dissacranti, graffianti, violentemente impertinenti, come il singolo “Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future))” aveva provocatoriamente annunciato. “We got big big plans coming up in this mothafucka”, canta Pierce Jordan, mentre i soci lo sostengono a colpi di batteria e di basso. Diaspora Problems è un’esperienza della quale non bisognerebbe privarsi.

19. Cate Le Bon – Pompeii

Nel suo sesto album Cate Le Bon prova a far rivivere le anime di Pompei, quella prima del disastro vulcanico e quella che nasce da quel momento in avanti, la Pompei dei fantasmi e della stasi indefinita e infinita, delle inquietanti ombre di chi è scomparso in quell’evento e dell’arte e dei papiri che invece sono rimasti, anche quelli sospesi in un eterno presente, a dare a Pompei un’altra vita possibile. E Pompeii è proprio questo: l’universo alternativo che sarebbe esistito se non fosse accaduto quello che è accaduto, i morti che ritornano, la comparsa di fantasmi fuori e dentro di noi che pensavamo di avere abbandonato da tempo. Tra batterie riverberate, tastiere melliflue, sassofoni onirici e synth tentacolari, Pompeii sembra non volerti mollare nel paesaggio di sogno e di immaginazione entro cui ti ha rapito. “Faces like lakes / Collaged against rocky terrain”, canta Le Bon in “French Boys”, la sua voce un gelido lago che sembra costruire un’ancora di salvezza in un luogo arido e desolato. Le disincantate aperture melodiche della bellissima “Harbour” dipingono una natura impressionistica e caduca, pronta da un momento all’altro a ingiallirsi e a sparire, lasciando al suo posto un vuoto incolmabile. “Every fear that I have / I send it to Pompeii”, canta Le Bon con un leggero ottimismo che sembra indicare che la via d’uscita dall’incubo forse non è lontana.

18. Nilüfer Yanya – PAINLESS

Con PAINLESS l’electro-pop di Nilüfer Yanya rimane avvinghiato prevalentemente agli Anni Ottanta e Novanta, ma diventa decisamente più maturo e variopinto. PAINLESS è eclettico e imprevedibile: al suo interno troviamo tutte le diverse sfumature della produzione di Yanya, che cura nei minimi dettagli ogni singolo elemento sonoro e lirico. Alcuni dei migliori brani di Yanya si trovano in PAINLESS, dal pop soffuso e delicato di “shameless” alla scoppiettante e magmatica “midnight sun”, dalla incontenibile “the breaker” alla glaciale “belong with you”, dalla melanconica “the mystic” che sembra guardare a Sade ai nervosi arpeggi un po’ avanguardistici di “stabilise”. La voce di Yanya è un fiume in piena e conquista trionfalmente i ritmi e le melodie di ogni pezzo, che sembrano sciogliersi come neve al sole grazie ad arrangiamenti delicati ma ipnotici che disegnano paesaggi psichici e stranianti. “There’s nothing that I need no more”, canta nella vitrea e scombinata “chase me”, splendido episodio che mostra con quanta originalità voce e strumenti siano declinati in PAINLESS. Senza dolore e senza paure, Yanya confeziona un disco praticamente perfetto. “I’ll do anything”, quasi implora in “anotherlife”. La sua voce si adatta a qualsiasi situazione. PAINLESS è la conferma di quanto già si immaginava su Yanya.

17. Florist – Florist

Il cantautorato onirico e nebbioso di Emily Sprague, dopo che in Emily Alone aveva esplorato gli angoli più oscuri della propria interiorità in seguito alla perdita della madre, cercando briciole di speranza in mezzo alla rassegnazione, continua a cantare di come dare nomi ai ricordi sia l’unico modo per non dimenticare. Il calore domestico della voce di Sprague e del folk onirico che le chitarre acustiche e i synth creano in “Red Bird (Pt. 2)” nasconde in realtà ferite interiori che non sembrano marginabili: il rapporto complesso col padre viene indagato attraverso l’emergere quasi involontario di una serie di momenti significativi per Sprague, tra cui la sua stessa nascita raccontata dall’esterno. “How can it be that the days go on / And the red bird sings its red bird song”, si chiede Sprague con tono sorpreso e incredulo, non riuscendo a capire come tutto possa andare avanti mentre abbiamo un inferno dentro di noi. Il cantautorato folk dei Florist è autentico e passionale, un viaggio dentro di sé che non porta risposte definitive, come emerge nel sogno realistico che è “Sci-Fi Silence”, nella quale la sorpresa di Sprague è questa volta rivolta a quel che nasce o rinasce dentro di noi mentre intorno la natura e il silenzio ci osservano. “Comе, you’re not what I have but what I love”, canta Sprague per diversi minuti, quasi come a volersi convincere che è davvero possibile ricominciare a vivere.

16. Destroyer – Labyrinthtis

Il genio sregolato e imprevedibile di Dan Bejar e dei suoi altrettanto avventurosi compagni di viaggio trova rifugio nel regno intricato ed enigmatico che è Labyrinthtis. L’albero fiabesco che troneggia in copertina ne è il perfetto correlativo oggettivo: scorre in esso il senso di ciò che è familiare, il γένος che si fa radice e rami e foglie fino a svettare verso il cielo e provare a conquistare una porzione anche di esso per congiungerlo alla terra. Di radici, in Labyrinthtis, ve ne sono tantissime. Il rock di Bejar evolve e matura disco dopo disco, frammentandosi e cambiando e riducendosi oramai a un flow testardo e incontrollabile, una action painting sonora che rende il post-art-rock dei Destroyer impossibile da etichettare. I graffi laceranti di “Suffer” indicano una possibile via, ma non è chiaro se sia di redenzione o di dannazione: “A drowning in the Trevi Fountain for no reason”, canta Bejar con tono divertito, in un linguaggio sibillino e fumoso. Tutto in Labyrinthtis è elusivo, reticente, ambiguo e profondamente poetico. Nella straordinaria “June” più sentieri si incontrano. Bejar recita e canta, pronuncia versi dal complesso significato, avvolti in una coltre di nebbia, mentre basso e chitarre procedono martellanti sopra un ritmo intermittente, vacillante: “A snow angel’s a fucking idiot somebody made”, canta Bejar, prima che una lunghissima e alienante spoken outro ci precipiti in una sorta di ciclone centrifugo che fa a pezzi tutto quello che incontra, uno stream of consciousness che sembra quasi voler fare a pezzi il linguaggio. “Do you remember the mythic beast? / Do you remember the sound of it singing?”, canta ancora Bejar in “Tintoretto, It’s for You”, mentre perdiamo lentamente coscienza di quello che siamo e non riconosciamo più il luogo che abbiamo sempre abitato.

15. Alex G – God Save the Animals

Alex G sembra non saper far altro che costruire un folk-pop cantautorale semplicemente perfetto: da ogni singolo brano sembra germogliare il successivo, in ogni microcosmo c’è il macrocosmo e quest’ultimo è fioritura colorata e armoniosa delle infinite galassie che contiene. Dopo House of Sugar Giannascoli ci regala un altro disco straordinario che riflette già nel titolo sul miracolo che sono gli animali e la natura e quanto sia prezioso il dono che abbiamo nel poter esperirli. E sorta di benedizioni laiche sono le canzoni, e questo ossimoro è una perfetta descrizione del talento di Giannascoli di dar vita a melodie fatate che stanno in equilibrio sugli abissi, pronti a essere smontate e rimontate, disturbate, aggiustate e poi troncate nelle maniere più originali e affascinanti. La forma canzone, però, resta sempre in piedi anche mentre viene sventrata e ricostruita, e ciò rende Giannascoli uno dei più interessanti e imprevedibili cantautori di questi ultimi anni. Come afferma lui stesso in “Miracles”, “After all, there’s no way up from apathy, yeah / You and me, we got better pills than ecstasy”, mentre riflette sulla possibilità di avere presto un figlio. È un cantautorato sincero e profondo che ha nell’immediatezza una delle sue armi migliori.

14. Aldous Harding – Warm Chris

Warm Chris è una splendida tavolozza di acquerelli dove tutte le opzioni che si offrono al pittore sono ancora possibili: la magia giace nella loro combinazione, vive come una fiamma nelle scene e nei bozzetti che egli riesce a creare, ne esce frantumata e confusa quando prova a riemergere dagli anfratti più oscuri della notte e del vuoto. Aldous Harding è l’incarnazione della pioggia leggera in una sera d’estate dopo mesi e mesi di zanzare e di afa: come un evento inatteso, come un mantra glaciale, come un rito tribale la sua voce dolcissima emerge dalla sabbia e del fango in una lotta incendiaria che non ha vincitori. Il folk-pop psichedelico del quarto album della cantautrice neozelandese è un dono pregevolissimo: splendidamente discontinuo, esso si muove nell’ombra e nella solitudine come un triste incantesimo. Un’intensità palpabile e al tempo stesso impenetrabile attraversa Warm Chris dall’inizio alla fine; in esso il cantautorato di Harding raggiunge vette che raramente aveva toccato prima sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista lirico. Scene intimistiche e delicate si costruiscono l’una sull’altra, preziose e al tempo stesso fragili come un castello di carte che crolla al primo colpo di vento. “Living for the things I love / Killing the ones that love me”, canta Harding in “She’ll Be Coming Round the Mountain”, una confessione che spezza ogni possibile corda con la linearità del tempo, catapultandoci dentro un eterno presente ciclico ma variabile. “Here comes life with his leathery whip / Here comes life with his leathery leathery”, afferma la neozelandese nel pezzo che chiude il disco, “Leathery Whip”, nel suo allucinato e carnevalesco andamento. Nel fatato universo di Harding ogni singola nota assume una forma insolita.

13. Ravyn Lenae – HYPNOS

Il tanto atteso debutto di Ravyn Lenae, HYPNOS, non delude le aspettative. La giovanissima star del neo-soul-R&B statunitense ha tutto quel che serve per riuscire a impressionarci: una voce soave, una capacità e una maturità non indifferenti di occupare i brani e farli inequivocabilmente suoi, una presenza forte e magnetica che conquista sin da subito e una naturale propensione ad armonizzare il suo timbro e la sua delivery con gli arrangiamenti e con le produzioni (e con chi eventualmente le è fianco). Il senso di smarrimento che propagano episodi caldi e levigati come la splendida “Skin Tight”, con la brillante partecipazione di Steve Lacy, servono a ritrovare la strada dimenticata e a ricrearla da zero. È un R&B che fa tesoro di tutto quello che lo ha preceduto, come emerge nelle pieghe seducenti della splendida “Light Me Up”, ma in cui Lenae prova a percorrere tracciati difficili, che si tratti della modulazione della voce, dell’interpretazione, degli arrangiamenti che sono solo in parte debitori dei Novanta e degli Anni Zero, tra conturbanti citazioni ad Aaliyah e riferimenti a Destiny’s Child e a Brandy, tributando il passato senza che ciò sia troppo evidente, facendo sì che chi ascolta debba scavare più o meno in profondità per trovarne le tracce. “Why do you play me for a fool?”, canta Lenae sospinta da un sound che a tratti ricorda i recenti album di Solange e che evidenzia l’eccezionale produzione di Monte Booker, un lavoro di produzione variegato e un insieme di collaboratori di altissimo livello che rende il disco seducente e ambizioso dall’inizio alla fine. “Throw your hands high, don’t think too much / Put ’em in the sky and feel that rush” canta Lenae nella splendida “Xtasy”, prodotta da Kaytranada, mentre l’aria intorno si accende e si resta a bocca aperta quasi per tutto il tempo.

12. Björk – Fossora

Fossora è l’ennesimo passaggio catartico e intricato all’interno delle infinite metamorfosi di Björk, un viatico stretto che conduce, però, verso una nuova possibilità di rinascita, da una stagione all’inferno a una sincera speranza di trovare una strada verso la pace interiore. Ampiamente affrontato è il tema della morte della madre, avvenuta nel 2018, che viene esplorato nella toccante e poetica “Ancestress”, una emozionante lettera in cui emergono alcune delle confessioni più potenti e drammatiche che Björk ha mai messo in musica: “By now, we share the same flesh / As much as I tried to escape it”. Mentre “Ancestress” rappresenta una sorta di epitaffio, in “Sorrowful Soil” allo sconforto si sostituisce la celebrazione della madre, un’attivista ambientale che tanto ha insegnato alla figlia: “Nihilist happеning cuts through this / “You did well, you did your best”. Le due affermazioni non sono in contrasto tra loro; nella loro ossimorica e al tempo stesso complementare essenza rappresentano, anzi, una perfetta descrizione di quello che è la vita nelle sue assurde e spesso splendide contraddizioni. Non mancano, come al solito, riflessioni sulla scarsa lungimiranza degli esseri umani, un tema da tempo caro all’autrice islandese. Sul rapporto con la natura riflette nella traccia che dà il titolo all’album, dove Björk cerca di mettere radici nel terreno proprio come un fungo, metafora col quale ha descritto ai musicisti la tipologia di sound che voleva applicare al disco: “I described [it] as my mushroom album: tree roots and mycelium spreading deep into the soil”. E Fossora è così: sopravvive, resiliente e impavido, ovunque, in qualsiasi situazione e clima, tra i drammi e le gioie, tra i piaceri e i dolori, reso leggiadro e di ampio respiro da una serie di arrangiamenti straordinari, da una varietà sorprendente di suoni e di ritmi, dal perfetto equilibrio che la voce di Björk costruisce con chi le sta intorno. In questo κόσμος precario Fossora si muove come una equilibrista sul filo.

11. yeule – Glitch Princess

Il pop d’avanguardia di yeule si sprigiona in tutta la sua forza distopica in Glitch Princess, il suo secondo album, in una perversione, nel senso etimologico del termine, di sentimenti e di suoni che sembra un tentativo di mettersi in contatto con forme di vita aliene. L’artista singaporiana, che ha definito la sua estetica come “victorian classical style cyberscape”, pare creare realtà dove ancora non esistono concetti come il tempo e lo spazio, mondi soltanto possibili immersi in buchi neri pieni di materia informe che yeule modella come un δημιουργός in grado di impastare l’argilla e creare nuove esistenze. È qualcosa di profondamente astratto e interstellare ma al tempo stesso di concettualmente concreto, tanto che ti pare di poter toccare con mano le esplosioni dei synth e della voce della gelida “Electric” o le alienanti rincorse della infuocata “Perfect Blue”. È musica proveniente da galassie lontane che hanno però in comune con la nostra tantissimo, in primis ciò che sentono e credono e pensano i loro strani abitanti. “What makes you uncomfortable? Seeing people in love / Why does it make you so sad? Because I don’t have someone to”, canta yeule in “Flowers Are Dead”, rito orgiastico e bacchico per lavare via un dolore che non vuole staccarsi dalle nostre interiora, allontanandoci una volta di più da quello che è razionale e che potrebbe salvarci. Non è questa la finalità di yeule, però, che prepara minuziosamente un puzzle visionario che si frantuma sotto i nostri occhi mentre lo ascoltiamo, come “Fragments” col suo titolo ribadisce. Tuttavia paranoia e timore non escludono tentativi di ascesa verso un paradiso altro, diverso, non perfetto ma giusto, che le melodie celestiali cui yeule dà vita accompagnano. “I’ll tell you / With my dying breath, I love you / I’ll hold you / ‘Til I stop the pain hurting you”, canta yeule, dimostrandoci che anche chi non sembra essere nato su questa terra è anche lui o lei, alla fine, umano troppo umano.

10. Weyes Blood – And in the Darkness, Hearts Aglow

È negli anfratti più bui della ψυχή di Natalie Mering, nei momenti di sconforto più duri degli ultimi anni, nelle situazioni difficili rese meno ardue da speranze cullate benché distanti e improbabili, cui la musica stessa ha saputo dar vita, che And in the Darkness, Heart Aglow ha preso forma, degno ed eccelso seguito dello splendido Titanic Rising del 2019. Mering sa dar peso a ogni singola sillaba, a ogni singola nota; il suo avant pop frammentario, che sparge indizi ovunque e che ci induce a seguirla nella sua collezione di ricordi e paure, di preghiere e di dubbi, è una sorta di messa laica che ti obbliga a fermarti e ad ascoltare in silenzio, a canticchiare, se vuoi. Weyes non bada a indugi: inizia il disco col botto, con uno dei brani più splendidi della sua intera carriera, “It’s Not Just Me, It’s Everybody”: “Living in the wake of overwhelming changes / We’ve all become strangers / Even to ourselves”, canta Mering, confessione posta in calce a questo lavoro, che questi versi in nuce descrivono perfettamente. Sono esplosioni di colore polimorfe e variopinte, in una ruota di immagini e di luccicanti impressioni che scorrono rapide come luci lontane dal finestrino di un treno. “You see the reflection and you want it more than the truth / You yearn to be that dream you could never get to”, afferma “God Turn Me into a Flower”, brano ispirato al mito greco di Narciso, che Ovidio, ispirato da Pausania, ci racconta nel terzo libro delle sue Metamorphoses, quando offre al lettore il resoconto eziologico di ciò che chiamiamo Eco, vale a dire la ninfa (Ἠχώ) che, respinta da Narciso, passa il resto dei suoi giorni nascosta, lasciando di sé solo un’eco. La vendetta di Nemesis, poi, sarà quella di far innamorare il giovane del suo riflesso nell’acqua, fino a trasformarlo, infine, nel fiore che conosciamo. Non è un caso che Mering citi proprio questo mito nel suo album, un disco nato intorno a un equilibrio precario, sempre in bilico tra cadute e rinascite, tra salite e discese, che ci ricorda quanto ogni cosa muti, e quanto cambi velocemente, come mostra la titanica “Grapevine”, cosa che rende la metamorfosi l’unica strada possibile.

9. Alvvays – Blue Rev

Bastano 39 minuti scarsi agli Alvvays per firmare il disco migliore della loro carriera dopo una serie di lavori brillanti che sembravano, però, non raggiungere mai per intero le massime possibilità che questo gruppo sembrava per lunghi tratti poter abbracciare. Quello di Blue Rev è un pop-rock fulmineo, che segue gli insegnamenti dei Paramore in primis ma flirta anche con sonorità oniriche vicine alle campagne nebbiose dipinte dai The Pains of Being Pure at Heart e da tanto alternative rock dei ‘90s, dove un muro di suoni a tratti infernali e a tratti idilliaci circondano e investono la voce di Molly Rankin, vero termometro del gruppo, che sa dirigere i soci con semplicità e con naturalezza, come se una fiamma sacra le stesse bruciando dentro. È un percorso di anamnesi (ἀναμιμνῄσκω in Platone), di recupero, cioè, di qualcosa di profondo che sembrava essere stato dimenticato e che la musica riporta alla luce. Il power pop melodico e ammaliante degli Alvvays nasconde da sempre sfumature cupe, che provano a indicare l’uscita da una condizione di disagio e di timore. “Racket in the hall, caution to the breeze / Say you’ll climb your way out of your wake now”, canta Rankin in “After the Earthquake” come fosse in apnea, quasi frettolosa nella delivery, per correre il più lontano possibile dalle sue stesse parole, tra inattesi momenti di quiete e altrettanto improvvise accelerazioni, un viaggio verso un paradiso che è pieno di incoerenze, verso una pace dei sensi vietata, attraverso un campo minato di sensazioni contraddittorie. È il paradiso agognato che gli Alvvays cantano in “Belinda Says”, il picco assoluto di Blue Rev: “Paradise and I find myself paralyzed / Knowing all too well terrified / But I’ll find my way”, canta Rankin, confermando quale tipo di complicata catabasi lei e la band stiano compiendo.

8. Beyoncé – Reinassance

Beyoncé ritorna a farci ballare, e questa è già di per sé una grande notizia. Il tripudio cui dà vita non è solo di sudore e di carne ma anche di riflessioni profonde e trasversali su cosa sia la musica nera oggi, su quanto di prezioso di essa sia finito per essere accantonato e in parte dimenticato nel corso degli anni e dei decenni e su quanto sia fondamentale ripercorrere i mari che essa ha salpato per poter abbracciare interamente le proprie radici di donna nera in America nel XXI secolo. Il carnevale di suoni e di colori che è Reinassance, primo di tre atti promessi dalla performer, guarda a Prince, alla house di Chicago degli ‘80s, al soul graffiante e commerciale dei ‘70s, alla dance afroamericana più conosciuta e a quella meno nota, finendo per campionare Donna Summer nel pezzo conclusivo del lavoro e i Right Said Freddy nella magistrale “Alien Superstar”, che insieme a “Virgo’s Groove” rappresenta il picco assoluto del disco, fino a utilizzare un sample delle Clark Sisters nel gospel futuristico che è “Church Girl”. “I need more nudity and ecstasy, oh / Baby, you can hit this, don’t be scared”, confessa Beyoncé in “Virgo’s Groove”, mentre un ritmo lascivo ci accompagna e ipnotizza in una necessaria e catartica liberazione dell’anima, protesa verso la pista, lì dove i nostri corpi ormai liberi ballano. È una sensazione di leggerezza incredibile quella che il disco regala, un’ora abbondante di grande musica che vola via rapidissima. Reinassance non è solo uno dei dischi più belli dell’anno ma è anche uno dei più importanti e per certi versi sorprendenti. Esso mostra l’ennesima trasformazione di Beyoncé, quasi un ritorno alle origini più maturo e cosciente, che la proietta in una nuova, splendida fase della sua carriera, che dà un’ulteriore svolta al concept album, qui diventato un’ampia e lunga pista per ballare e divertirsi facendo però mantenere ai pezzi un sottotesto chiaro e limpido in merito a ciò che rappresentano, una carrellata della storia dance e pop nera d’America, non pictures ma songs at an exhibition, per chiamare in causa Mussorgsky, un LP che regala a non finire klímakes e successioni di tracce sensazionali e travolgenti.

7. Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe in You

Dopo due dischi eccezionali pubblicati nel giro di pochi mesi nel 2019 e un solido album solista della leader Adrienne Lenker uscito nel 2020 i Big Thief ritornano con un’opera massimalista e ambiziosa che in venti brani esplora tutto il ventaglio delle possibilità sonore che Lenker e i suoi colleghi sono in grado di creare. Dragon è immerso in un country-folk che intreccia le orme di Joni Mitchell, Bob Dylan, Elliott Smith e Nick Drake, tutte influenze rintracciabili in questo carnevale caleidoscopico che ha preso forma pian piano nel corso dei mesi, come dimostra una versione acustica di “Simulation Swarm”, uno dei momenti più incisivi ed emozionali dell’opera e una delle canzoni più belle di quest’anno, una composizione che Lenker aveva condiviso sui social un anno prima dell’uscita del disco. “Little Andy, will you return again? / I believe we can renew, and you could be my brother / Once again, fall asleep with our backs against each other”, canta Lenker nel pezzo, e la sua voce iniziatica sembra doversi spezzare da un momento all’altro per la carica di πάθος che mette in ogni parola, dentro una storia di assenze che verso dopo verso scorre forte e s’infiamma davanti ai nostri occhi. Come ci hanno abituato, i Big Thief non si accontentano di dare alla luce grandi canzoni, ma le plasmano e le marchiano con una σφραγίς che è riconoscibilissima, segno inconfondibile di Lenker e compagni. Il gruppo sente il bisogno di sperimentare intorno al folk, al country e al rock, come dimostrano la traccia che dà il nome al disco, che nell’album è un viaggio abbacinante e onirico e in concerto diventa quasi hard rock, il folk lo-fi di “Certainty”, la divertente e poetica “Blue Lightning”, gli straordinari capitoli quasi vicini allo shoegaze e al trip hop come “Flower of Blood” e “Blurred View”, il cantautorato toccante di “Promise Is a Pendulum” e di “The Only Place”. Dragon certifica che i Big Thief sono uno dei gruppi più convincenti in circolazione oggi.

6. SZA – SOS

Come un fulmine a ciel sereno a inizio dicembre SZA ritorna dopo cinque anni di distanza dal suo debutto, CTRL, con un album che sembrava non dovere arrivare mai e che mostra quanto la star dell’R&B contemporaneo americano abbia saputo maturare ulteriormente e confezionare un disco che è ancora più coeso e multiforme del suo predecessore. In SOS SZA domina la scena dall’inizio alla fine: emergono le melodie al miele di “Kill Bill” e di “Ghost in the Machine”, che ha il prestigioso featuring di Phoebe Bridgers, i beat magnetici di “Conceited” e le derive interstellari e fantasmatiche di “Blind” e di “Gone Girl”, momenti in cui perdersi senza che vi sia necessità di ritrovarsi, cullati da produzioni calde e ammalianti e dal magnetismo della voce di SZA, sempre più solida e costante, mai per un momento fuori dal nobilissimo tracciato che in questi anni ha saputo disegnare intorno a sé e dentro di sé. 23 brani per 68 minuti di musica che, come accade sempre con SZA, non sono mai inscrivibili in un preciso gruppo di generi: dal soul all’R&B, da affreschi pop a sonorità quasi jazz-folk, SOS è un mosaico di riferimenti e sentimenti, ancora una volta una finestra aperta sulle contrastanti emozioni che affollano l’animo e la mente di questa giovane ragazza, come già accadeva in CTRL, ma con ancor più forza e destrezza oggi. È lei al centro della scena, cometa inaspettata che conclude l’annata col botto. Ma intorno a sé si circonda solo del meglio, dalla già citata collaborazione con Bridgers all’ottimo apporto del fedele Travis Scott, dalla presenza del compianto Ol’ Dirty Bastard a una sfilza di producers stratosferici. “If I’m real, I deserve less / If I was you, I wouldn’t take me back”, canta SZA nella struggente “Nobody Gets Me”, accompagnandoci lentamente fino alla soglia dei suoi dubbi più oscuri e nelle sue angosce più segrete. Inizialmente ci sentiamo quasi a disagio a presenziare a dichiarazioni di questo tipo, espresse con tanta chiarezza e franchezza. Ben presto, però, naufraghiamo dolcemente nel mare che in copertina è a pochi metri da SZA, pronti a immergerci ancora una volta negli arpeggi strumentali e vocali della meravigliosa “Blind” e della ramificata “Shirt”, in un movimento circolare che non è mai uguale a se stesso.

5. Yaya Bey – Remember Your North Star

L’album della maturità di Yaya Bey è un viaggio mozzafiato tra i generi nei quali la componente Black ha lasciato maggiormente il segno. Dal reggae al soul, dal jazz all’R&B afroamericano, la compositrice di Brooklyn scrive quasi un saggio in musica, compiendo un viaggio dentro sé che è anche un percorso di ricerca delle sue radici, delle sue fonti d’ispirazione e nella storia della Black music americana. Bey unisce i puntini della sua storia personale e del suo itinerario musicale che ha intrapreso finora con quelli del macrocosmo in cui si fondano, ed evolvono, i generi ai quali maggiormente guarda e che hanno nell’universo Black interpreti indimenticabili. “Ain’t I so impressive, baby? / Ain’t no second-guessing, baby”, canta Bey in “big daddy ya” con una sicurezza e una convinzione quasi solenni, tra distorsioni, sabbie mobili e un flow irresistibile che ti conquista sin da subito. Bey non dimentica da dove viene e neppure dove vuole andare: sta cercando la direzione, sta imprimendo a chiare lettere, sulla sua fronte e sulle nostre, quello che con Remember Your North Star, imperativo morale di rara intensità, desidera mettere in atto. Lo descrive, di fatto, con minuzia e con sagacia nei diciotto capitoli che affollano l’album, tra confessioni e concessioni, tra speranza e indecisioni, nella libertà artistica e umana più totale e autentica. “You’re born alone and you’ll die the same / They’ll give you names but it’ll never change”, si vede costretta a cantare in “don’t fucking call me” col tono di chi sa che tutto questo non è sufficiente a scacciare le proprie ataviche paure ma che è necessario per ritagliarsi un angolo di mondo in cui si possa respirare. Remember Your North Star è a suo modo una “thesis”, come ha detto Yaya stessa, e la sua impalcatura ne è la prova.

4. Rosalía – MOTOMAMI

Riuscire a pareggiare la genialità e la polifonia di El Mal Querer per Rosalía era complicato. La cantautrice catalana è riuscita a non deludere le aspettative dando vita a un lavoro altrettanto polifonico creato negli ultimi due anni soprattutto a Los Angeles e profondamente influenzato dalla necessità di far entrare in esso tutto quello che scorre nel sangue della sua animatrice. Il reggaeton entra prepotentemente in MOTOMAMI come forza primigenia di pulsioni e di impressioni che incrocia altre strade e altri generi, come le migliaia di radici che collegano al terreno un albero: ognuna di esse è indispensabile ed è solo grazie a esse se l’albero cresce in un particolare modo e non in altri. Le radici di Rosalía sono innumerevoli. Il reggaeton trasfigurato e lavorato della spassosa “CHICKEN TERIYAKI” mette a fuoco la passione per J Balvin e quella per i generi folklorici ispanofoni, qui prevalentemente sudamericani e non spagnoli mentre il gioiello “HENTAI”, scritto insieme a Pharrell Williams, contiene in sé il meglio che il pop americano – e non solo nordamericano – sa offrire oggi racchiuso entro una cornice zuccherosa di un delicato pianoforte e di un geniale testo in spanglish. MOTOMAMI è però molto di più: è la sperimentazione feroce e sanguigna della title track, è la velenosa e ironica “LA COMBI VERSACE” durante la quale è impossibile non muoversi, è la visionaria e toccante “SAKURA”, la tossica e conturbante “CANDY”, uno dei brani migliori di quest’anno, è il cantautorato tormentato della sublime “G3 N15”, è la divertita e spiritosa “Abcdefg”, il dizionario del nuovo millennio a firma Rosalía.

3. Sudan Archives – Natural Brown Promo Queen

L’affresco policromatico e leggiadro di Natural Brown Promo Queen potrebbe essere il picco dell’intera carriera di Sudan Archives: i flash ipnotici della sua verve eclettica e contagiosa la incoronano come una delle regine incontrastrate del panorama musicale di quest’anno, e il suo secondo LP lo dimostra. In esso Brittney Parks mette tutta se stessa, sia per quanto concerne la fase creativa e di lavorazione al disco sia per quanto riguarda quella performativa, in studio come dal vivo: ogni beat e ogni nota formano un flusso organico che prende l’ascoltatore non diversamente da quanto racconta nello Ione Platone quando parla dei poeti che, grazie alle Muse, riescono ad attrarre gli altri con un potere che è simile a quello del magnete sui pezzi di ferro. E a Parks ciò riesce benissimo: il suo furore, che sia divino o meno (per Platone, come si diceva, era divino, e lo chiamava ἐνϑουσιασμός), ci mette a contatto con qualcosa di superiore a noi, di incommensurabilmente più grande, di emozionante e di vero. Metafisico, sì, ma dannatamente vero a tal punto che ci sembra di poterlo sfiorare con le dita grazie alle sculture magiche che la polistrumentista originaria di Cincinnati scolpisce. A tre anni di distanza dal suo brillante esordio, Parks torna ancor più matura e crea un disco di rap e di spoken word che non solo ha al suo interno brani potentissimi, perfettamente prodotti, splendidamente composti e capaci di evidenziare tutti i punti di forza e le diverse nature della sua autrice, dall’R&B all’elettronica, dall’avanguardia al soul, ma possiede anche una forza intrinseca nel suo insieme, nella sua stessa organizzazione, nel quadro astratto e complesso che Natural Brown Promo Queen è. “Rich girls don’t know what they ask for / Don’t know what they here for”, canta Parks, acidissima, in “ChevyS10”. Nei suoi diciotto brani il disco è un incrocio di suoni e di visioni stranianti, un’analisi dell’amore nelle sue forme più tossiche e una riflessione sulla blackness e cosa essa significhi oggi specialmente negli USA. “Back to the streets that’s dipped in gold / And right when it feels like home, we go” è il mantra di “Yellow Brick Road”, inno generazionale sussurrato, che come tutto il disco fa della sua sincerità il suo grande punto di forza. Natural Brown Promo Queen è il disco più ambizioso dell’anno e Parks è la prima a saperlo.

2. Beth Orton – Weather Alive

Il capolavoro di Beth Orton arriva quando meno te lo aspetti, dopo una serie dischi senza veri e propri picchi al loro interno, ben lontani dall’eccellente Central Reservations. Il pop ingenuo e prevedibile dei suoi ultimi lavori viene letteralmente spazzato via da un cantautorato poetico e maestoso che talvolta sembra incrociare persino i sentieri tortuosi di Kate Bush e dei Portishead. Al fianco della britannica c’è una formazione adatta a far brillare in maniera ancora più evidente questo nuovo percorso sonoro ambizioso e convincente: da Tom Herbert a Tom Skinner (Sons of Kemet, The Smile), da Francine Parry ad Alabaster DePlume, tutti i nomi intorno a Orton sono di altissimo livello e creano un ambiente sonoro straordinariamente intenso e onirico. Discese e salite improvvise e subitanee si condensano in particelle esplosive che si disseminano ovunque, atomi eterni, indivisibili e immutabili come quelli di cui scrive Democrito e che avrebbero ispirato anche gli scritti di Epicuro e di Lucrezio. “The love, the love we’re giving / Gonna bring us back into being”, canta Orton disillusa ma mai del tutto sconfitta, come evidenzia la disperata vitalità di “Weather Alive”. Orton è cosciente del fatto che salpare in acque tempestose con un piccolo vascello è un terribile pericolo ma che la partenza è imminente: Beth si è impegnata a costruire un legno forte e resistente e spinta dalla sua curiositas naviga senza paura.

1. Lucrecia Dalt – ¡Ay!

Giunta al suo ottavo album solista, il terzo per l’etichetta newyorchese RVNG Intl., la colombiana María Lucrecia Pérez López, in arte Lucrecia Dalt, confeziona il disco più convincente della sua carriera, che ha l’ambizione di dipingere un tracciato sperimentale fangoso e labirintico e pieno di ostacoli e di ombre. Dalt, che da anni vive in pianta stabile a Berlino, muove dalle sue piuttosto recenti scorribande elettroniche che esaltavano il conflitto tra creazione e distruzione e giunge adesso a disegnare un fiume di lava incandescente che entra a fiotti in un palazzo che al suo interno è senza fine. Tempo e spazio si frammentano, si rincorrono, si intersecano in un gioco di specchi in parte infranti imprevedibile e inquietante. La lingua e le parole si riducono a segnali, ritmi e sillabe intricati, attorcigliati agli strumenti con maestria e con attenzione, quasi avvinghiati a essi come amanti inseparabili; le dissonanze e le frequenze si seducono e si incrociano in una danza spietata, che non fa sconti a nessuno. ¡Ay! è il disco della maturità per Dalt, che ritorna alle sue origini, in Colombia, attraversando un tunnel buio e pieno zeppo di cocci di vetro, di fisse oscure e di tormenti, di richiami misteriosi e di vie cieche, di segnali incomprensibili che la riportano fino alla terra dove è nata. Lì descrive e poi riscrive quelle oscure tradizioni con movimenti e lineamenti raffinati e policentrici che si uniscono a paesaggi della mente deliranti e sconcertati, grazie ad andamenti ipnotici degni di in un film degli Anni Dieci del Novecento che pare non dover finire mai. “Ella que cree que encarna el humor / Se cree la Circe de Eea / O la esfinge o Medea / La muy Dadá”, quasi sussurra Dalt in “Dicen”, mentre il ritmo percussivo e la straziante melodia sembrano la colonna sonora di una tragedia di Euripide, magari le splendide Baccanti. Dalt canta di quelle radici che si strappano anche solo per poterle ripiantare, e lo fa per tutto il disco in spagnolo, facendosi strada nella giungla a passi lenti e misurati e con un piglio un po’ insolente, per sorprenderci e spogliarci delle nostre sicurezze, che infatti crollano in un attimo perché non sono affatto sicurezze. In “Enviada” sembra camminare sui carboni ardenti mentre una foresta intorno sta bruciando. Per tutti questi motivi ¡Ay! è anche un disco iniziatico, che prova a pulsare alla medesima frequenza della terra che sta sotto i nostri piedi, provando a riallacciare con essa un legame che rischia di essere sempre più fragile e difficile. Come canta in “Gena” riferendosi all’amore, “Es el no tiempo, es estar atrapado / En el vacío cualquierizado”. ¡Ay! è tutto questo e molto altro e non si può uscire da esso con il cuore in pace: quel distico ne offre una sintesi perfetta.