“Note che raccontano la storia”, il libro che ripercorre i suoni perduti del passato

 “Note che raccontano la storia. I suoni perduti del passato” – Alessandro Vanoli, Il Mulino, Bologna, 2022.

Note che raccontano la storia. I suoni perduti del passato

La storia si fa con i documenti, con le immagini e le testimonianze, con i fossili e gli oggetti, e pure con l’immaginazione. Il mondo lo conosciamo attraverso i cinque sensi di cui siamo in possesso, ma fatalmente molti racconti che riguardano il passato non prevedono tracce musicali, generando un oblio sonoro di cui troppo spesso tendiamo a non considerare.

Il passato è musica sconosciuta, suoni omessi, memorie e ricordi racchiusi in un singolo strumento di cui nessuno custodisce più i segreti.

Alessandro Vanoli, nel bellissimo “Note che raccontano la storia”, si è messo in cammino, seguendo un itinerario lungo secoli, alla ricerca proprio di quei “suoni perduti”: un romanzo fantastico, perché no, dalla preistoria ai giorni nostri, in cui uomini, tecniche e strumenti mutano vorticosamente e definiscono epoche intere.

Nella caverna di quarantamila anni fa cosa realmente “ascoltassero” i nostri antenati è difficile dirlo ma possiamo provarci:

Voi aprite gli occhi e siete in una grotta: il mattino perfetto, quello delle origini. Buio naturalmente, così buio che dovrete arrangiarvi col tatto per cominciare: sono foglie quelle sotto di voi; […] E sopra, a fare da coperta, una pelle, spessa e ruvida. […] Poi accanto a voi qualcosa poggiato su una roccia. Lo afferrate stringendolo tra le dita: quello che pare un lungo osso sottile, segnato da alcuni fori. Non lo vedete in quel buio fitto, ma l’avete capito: un flauto.

Tra i primissimi strumenti conosciuti, al tempo ricavati da ossa, è a questi piccoli oggetti che dobbiamo le prime tracce della nostra impronta sonora sulla Terra.

Pensiamo a quellodi“Divje Babe, vicino a Chirchina, in Slovenia, che ha forse più di 60000 anni e che potrebbe essere addirittura un prodotto dei Neanderthal tanto è antico.”  Il cui suono rappresenta, ad oggi, ancora un mistero, forse la riproduzione di voci, di animali o di spiriti antichi, oppure di parole, una sorta di primordiale connessione tra linguaggio e musica. 

Nei recessi di antiche cavità, in giro per l’Europa,“vediamo dei personaggi stilizzati imbracciare oggetti tondi che potrebbero essere tamburi, come in Finlandia, nel sito di Varikallio. Talvolta capita che simili figure siano interpretate come l’immagine di antichi sciamani: dei guaritori, delle guide in grado di comunicare con mondi diversi, di parlare ai morti e agli spiriti.” Interpretazioni, queste ultime in particolare, che sono il prodotto di una stratificazione di studi, fonti, riletture che hanno molto di suggestivo ma chissà quanto di vero.

Una tappa, quella delle origini degli umani, di raro fascino  e che Vanoli scandaglia per bene, lasciando il lettore a fantasticare di pitture rupestri, riti arcaici e tribù nomadi, in ascolto di un mondo infinitamente lontano.

Il viaggio procede spedito, attraversando società assai diverse e articolate come quella greca, imbevuta di miti e di ragione pitagorica, misura di tutte le umane faccende; o quella medievale, chiusa dentro le sue mura e aperta al divino, dove “il cuore era la chiesa, da cui giorno e notte si elevava la preghiera dei monaci”, i quali scandivano ogni istante della loro clausura cantando: ”Una musica fatta di sola voce e di un canto privo di accompagnamento. Qualcosa di sin troppo semplice, verrebbe da dire. Eppure, proprio per questo, perfetta.”

Ovunque si sosti, l’itinerario è puntellato di episodi, figure, città e paesi, che hanno fatto tanto la storia del nostro continente quanto quella musicale.

Che dire della cultura islamica, così raffinata ai tempi della dominazione spagnola e ben presente nelle regioni del nostro meridione, fatta di poeti, musicisti, cantastorie che in “giardini ombrosi e fioriti, colmi di frutti, cinti da mura e irrigati da fontane e ruscelli” davano sfogo in libertà della maestria di cui erano capaci. Un mediterraneo, quello a ridosso della scoperta del Nuovo Mondo, crocevia di culture e incontri, dove il liuto (dall’arabo ‘ud, “legno”) accompagnava uomini provenienti da tutta l’Asia, compresa l’antichissima Cina degli Han.

Le quattro corde simboleggiavano gli elementi, le fasi della ,luna, le direzioni, le stagioni, le parti del corpo e i quattro umori: nella convinzione già greca che musica e cosmo si corrispondessero.

Strumento che già ci proietta verso la “nostra” più familiare chitarra, anch’essa capace di imprimere un segno indelebile nella cultura europea e di segnare una svolta nelle rivendicazioni nazionaliste di popoli ancora privi di sovranità.

Si deve a un geniale liutaio partenopeo, Gennaro Fabbricatore (che nel 1820 costruì un esemplare di chitarra con decorazioni d’ebano sulla tavola e cassa in acero), la diffusione di questo strumento in tutto il mondo, anche per merito di un acquirente speciale, che da buon collezionista non poté rinunciarvi: Niccolò Paganani, il virtuoso e diabolico violinista genovese.

In America, grazie al flusso di emigranti esploso a inizio Ottocento e consolidatosi il secolo successivo, divenne “strumento ideale per l’accompagnamento della voce, anche se un po’ debole per suonare assieme a un’orchestra”.

Tant’è che presto:

[..] cominciarono a emergere i primi solisti, che mescolavano tradizioni blues e folk, come Blind Lemon o Robert Johnson, che avrebbero influenzato non poco gli artisti delle generazioni successive.[…] Poi Eddie Lang che negli anni Venti, nei suoi duetti col grande pianista Bix Beiderbecke, avrebbe posto le basi della chitarra jazz. Questa che poi sarebbe eternata da Django Reinhardt”.

Una storia, quella della chitarra, cronologicamente conclusa dall’autore con l’avvento dell’amplificatore e la nascita dei giovani come categoria sociologica, che rimanda ai nostri ricordi, alla memoria di chi sa già com’è andata a finire.  

Allora ci fermiamo pure noi. Consigliando, tuttavia, di percorrerlo per intero questo viaggio, magari percorrendo a ritroso quella celebre Route 66 citata nell’ultimo capitolo da cui, ne siamo sicuri, riprenderemo il discorso molto presto.

(Alberto Scuderi)

Articolo che appare anche su Aster Magazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.