ALEX G, “God Save the Animals” (Domino, 2022)

Nel trattato intitolato De partibus animalium, il filosofo stagirita Aristotele afferma, in termini non dissimili da quelli che utilizza in molte altre sue opere, che ogni essere vivente è costituito da due parti intrinseche, la materia primaria (οὐσία) e la forma sostanziale (εἶδος). Da queste basi muove il suo studio sugli elementi primordiali della natura e sulle condizioni che portano i corpi a essere come sono. In God Save the Animals Alex Giannascoli non osa spingersi tanto in profondità, ma il fatto che in più momenti della sua discografia, fino a quest’ultimo, brillante episodio, cerchi di relazionarsi con il mondo animale per celebrarlo e per interrogarsi, di risposta, su che cosa siamo noi è sintomatico. È un taglio enigmatico e sincero la fessura attraverso la quale Alex G decide di raccontare lo speciale rapporto che lega uomini e animali, lui che il suo cane aveva già citato in qualche pezzo e che sembra comprendere come un destino di dolore accomuni noi e loro nonostante i gradi differenti di coscienza. Questo non è un album pessimista, tuttavia, e le voci che pervadono “After All”, apertura del progetto, lo confermano. “Were you young when you lost innocence? / Did the world feel so unkind?”, si domanda con schiettezza, privo ormai di ogni timore e di ogni tipo di rancore: il dolore lascia spazio alla natura e alle sue manifestazioni, brutte o belle che siano, sempre, pure, inevitabili. D’ora in poi Alex G non torna indietro: si può andare solo avanti, sembra dirci.

È guardandosi indietro, però, che questo disco prende vita. È dalle vene anarchiche di “Gretel”, il singolo portante di House of Sugar, il suo precedente ed esaltante album in studio, con il suo ritmo graffiante, i pitch distorti e il folk elettr(on)ico (ed eclettico) che il disco intero inventa che God Save the Animals pian piano si materializza. È una maturazione eccelsa, una direzione coraggiosa ma non di certo inattesa, di quelle che ti portano a domandarti come mai l’autore sia arrivato a tali scelte, radicali e labirintiche, secche eppure mastodontiche: sarà che il sottobosco da songwriter è poi ovunque, un sound che talvolta nasconde echi dei Wilco e dello Stephen Malkmus più ciondolante, fonti evidenti nella melodia di “Mission” che è da stropicciarsi gli occhi, o nella bipolarità marziale di “No Bitterness”, dove la voce da baritono di Giannascoli si tramuta ben presto in un ipnotico e incalzante trip lisergico tra distorsioni ed elettronica, tra tecnologia e analogico. Anche episodi spudoratamente innovativi come “Ain’t It Easy” e “S.D.O.S.” funzionano egregiamente: la decostruzione della convenzionale canzone d’autore è perseguita attraverso minuziose operazioni e dettagliati accorgimenti. Il ritmo si frammenta, le voci si scompongono e si allacciano come emergendo da un oceano e la produzione è particolarmente ardita. Visto il titolo del disco e la sua dimensione panica i versi “God is my designer / Jesus is my lawyer” strappano molto più di un sorriso. Non si tratta di cinismo ma di sana accettazione del reale in tutte le sue ingiustizie e imperfezioni: Giannascoli affronta tutto ciò di petto, senza mai cedere alla disperazione e allo sconforto, finché nella attorcigliata “Immunity” canta “Baby I’m in trouble”, dichiarazione di poetica, diremmo; ma poco dopo aggiusta il tiro e chiude il brano con un leggero “Yeah, I’m in love with you” che è perentorio ma non troppo e lascia ancora tutto aperto.

In God Save the Animals emerge, dicevamo, una certa volontà da parte di Giannascoli di scrollarsi di dosso quel fardello pessimistico che avvolge la maggior parte o quasi delle sue composizioni. Sia ciò necessità di esorcizzare od ossessione non importa: questo è un dubbio mai risolto, un’ambiguità che aleggia nelle pieghe sofferenti di tutti i brani migliori di Giannascoli, una domanda che resta perennemente inevasa perché questo è ciò che vuole lui. Affidarsi agli animali e pregare un buon dio laico che si invoca come protettore di un sentimento totalizzante non è nulla di incredibile: gli indizi che conducono a questo sono disseminati ovunque. Ci riconosciamo e sprofondiamo nella vetrosa “Cross the Sea”, carmen sacrale che procede dritto e celere nell’avvolgente frase che è “You take care of me / You take care of me”, che finisce per convincerti che Giannascoli è al tuo fianco. Ricordi scorrono lì accanto: lui prova a trattenerli ma è difficile fermarli. Così nella epifanica “Early Morning Rain”, come in una commedia terenziana nei concitati attimi precedenti all’agnizione, Giannascoli vede se stesso finalmente illuminato e prova a risultare convincente rivolgendosi alla sua immagine: “Haven’t I given enough? / When will I run out of love?”. Nel gioco di specchi nessuno si è fatto male e il narratore è ancora in piedi.

Miracolose apparizioni sono quindi ormai normali in un contesto frammentario e laicamente (e in parte anche ironicamente) religioso come questo. Tutto ciò è vissuto intensamente e seriamente da Giannascoli: il suo trasporto emotivo pervade ogni immagine e ogni nota di quest’ultimo lavoro. Sia d’esempio la prodigiosa “Miracles”: “You say one day we should have a baby, well / God help me, I love you, I agree, yeah”, canta Giannascoli pieno di gratitudine. Nella via crucis della mente ha superato i demoni che di certo non scompaiono ma che ora non strillano ogni giorno: Giannascoli arriva a immaginare una famiglia, un buon futuro, una meta a cui tendere. La metamorfosi è compiuta: l’oscuro è ancora lì a osservarci ma ora tace, anche se presto ricomincerà a gridare. “You and me, we got better pills than ecstasy”, canta Giannascoli, e non abbiamo alcun motivo per non credergli. E gli animali, poi? “Baby, I pray for the children and the sinners and the animals too, and I pray for you”. Gli animali, dunque: non esiste alcun kosmos e non esiste amore nella mente di Giannascoli che non comprenda anche gli animali, domanda e risposta insieme del mistero che è la vita. Si affida a loro nello scomporre e frammentare i ritmi e i suoni e la sua voce, e tutto questo a tratti sembra costruire quell’impalcatura sotterranea di minute relazioni che governano l’esistere di cui Aristotele ha scritto, “all’opposto dell’assoluto” [*]. Ma questa, forse, è tutta un’altra storia.

[*] Pierluigi Fagan, “Ricerca delle origini della cultura della complessità: Aristotele”, in https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/02/22/ricerca-delle-origini-della-cultura-della-complessita-aristotele/

79/100

(Samuele Conficoni