30 anni di “Loveless” dei My Bloody Valentine

Un trentennale molto importante, e molto atteso.
E noi qui a Kalporz siamo andati a ripercorrerlo, canzone per canzone.
Signore e signori, “Loveless”, ovvero l’album che fece quasi fallire la Creation, e che ancor oggi è fonte inesauribile di ispirazione per musicisti e semplici appassionati.

1. Only Shallow – 4:17 (Shields/Bilinda Butcher)

Provare a definire con parole di senso compiuto quel senso di stordimento generato dal primo ascolto di Loveless è un’impresa che in poche menti sono riuscite a compiere. Niente è più efficace dell’intro del disco e dell’intro di “Only Shallow” che in quindici secondi ribalta ogni concezione di rock e avanguardia dell’epoca portando per sempre nell’olimpo di My Bloody Valentine. Per il sottoscritto è stata anche la prima traccia ascoltata dal vivo nel clamoroso tour indoor di reunion della band, ormai tredici anni fa in qualche data in UK, tra cui cinque dati alla Roundhouse di London. I timpani e non solo non sarebbero mai stati più gli stessi. (Piero Merola)

2. Loomer – 2:38 (Shields/Butcher)

Dopo il clamoroso esordio di “Only Shallow”, Shields e compagnia confezionano uno dei brani più mbv possibili e vero e proprio manifesto dello shoegaze. La canzone emerge a tratti dal pastone di suoni e feedback, sound che ha reso iconico la band irlandese. Un brano che esemplifica in tutto e per tutto quello stile unico, ricercato ma mai più trovato da decine di epigoni dream pop e simili. E cosa esiste di più shoegaze che questa parte di testo cantata da Blinda Butcher: “Pretty boys / With their sunshine faces / Carrying their / Heads down”? (Matteo Mannocci)

3. Touched – 0:56 (Colm Ó Cíosóig)

“Touched” è un pezzo atipico. É una sorta di intermezzo strumentale molto evocativo, scritto e prodotto interamente dal batterista Colm Ó Cíosóig in piena autonomia dal resto della band. Di base nasce dall’interazione ricorsiva di tre elementi: una frase di archi, un intervento percussivo e un riff “va-a-capire-di-cosa-diavolo-fatto”. Nonostante ciò il brano si integra perfettamente nel discorso narrativo del disco. La breve soundtrack di un sogno misterioso. (Eulalia Cambria)

4. To Here Knows When – 5:31 (Shields/Butcher)

Tra gli assedi sonori sospesi tra sogno e perturbante allucinazione di “Loveless”, “To Here Knows When” è forse il momento più elegiaco, di relativa tregua dove il dream pop con quella sinfonia drone ante litteram prende il largo portando la voce di Bilinda Butcher in una dimensione che ancora stiamo cercando di comprendere. (Piero Merola)

5. When You Sleep – 4:11 (Shields)

In molti dei concerti degli mbv il pattern policromo di “When You Sleep” arriva subito dopo il vortice vulcanico che è “I Only Said”, un inizio di show da horror vacui che garantisce un’esplosione ipertrofica di suoni e di vibrazioni non appena il live ha preso il via. Nel capolavoro che è Loveless “When You Sleep” la precede, creando, anche in questo caso, un turbinio di oscillazioni magmatiche taglienti e pulsanti. Nel viaggio interstellare che attende l’ascoltatore i numerosi layer vocali si immergono in quelli formati dalle chitarre e dal basso fino a che gli uni non si distinguono più dagli altri. Sembrano ribadirci che questo modo di fare musica non può avere uguali: straborda, si agita e assume in ogni istante fattezze diverse. La voce di Kevin Shields entra nella composizione in modo incerto e soffuso, quasi come se volesse accompagnarla per mano in un’altra galassia, una dimensione onirica dove il tempo sembra scorrere soltanto per chi guarda da fuori e non per chi vi sta dentro. “When I look at you / Oh, I don’t know what’s real”, afferma Shields con sorpresa, e ogni immagine ci appare sfuocata e distante. Shields ha poi dichiarato che quegli strati di canto erano nati dal suo disappunto per non essere riuscito a incidere la voce come davvero voleva, ma nessun’altra frustrazione ha dato vita a qualcosa di più etereo e soave. (Samuele Conficoni)

6. I Only Said – 5:34 (Shields)

Sesto in scaletta, “I Only Said” è fin dagli accordi iniziali uno dei brani che più rimangono in testa, grazie sopratutto all’ipnotica melodia che si inserisce tra le strofe. Come molti elementi dell’album risulta difficile identificare esattamente lo strumento all’origine del suono incessante su tutta la traccia. Presenti i marchi di fabbrica: le chitarre modulate a livelli “mal di mare” di Kevin Shields, la voce eterea di Belinda Butcher, una ritmica “buggy” più rilassata del solito. Il testo si compone di una serie di suggestioni atte a creare l’atmosfera; un po’ come accade nei sogni quando ci sembra di afferrare illuminanti rivelazioni che poi, appena svegli, non riusciamo più a ricordare. (Eulalia Cambria)

7. Come in Alone – 3:58 (Shields)

“Come In Alone” apre il lato B del secondo disco dei My Bloody Valentine all’insegna di una ritmica marziale e chitarre gigantesche tra tremoli e feedback. La figuro come un esemplare pop circolare e visionario, in cui la matrice contaminante – il rumore – e il mood malinconico garantiscono la reinvenzione di una canzone d’amore (“You’ll Love To Let Go/I’ll Turn You Around”) che poteva avere scritto Phil Spector o Lou Reed. Aneddoto tra tanti, gli ingegneri del suono non potevano assistere alla registrazione dei vocals, che si svolgevano alle 7.30 del mattino coperte da tendaggi sulle finestre, con le parole concepite da Kevin Shields sul momento. Io ricordo ancora oggi la potenza del basso di Debbie Googe nel pezzo al Primavera 2009, e come i volumi mi sembrassero ingrandirsi al limite dell’assordante nel minuto finale di catarsi effettistica. (Matteo Maioli)

8. Sometimes – 5:19 (Shields)

Potremmo definirla la “ballad” del disco, la trasposizione agrodolce di un amore non alla pari, sbilanciato e dissonante nelle parole e nella musica, che si apre con un giro di chitarra acustica, via via coperto da un muro di suono. Trasmettere lo scoramento e allo stesso tempo l’innamoramento, la volontà di avere qualcuno affianco che però potrà farti del male e che può essere sfuggente. Questo è quello che viene fuori dal testo e probabilmente, sarà questo che Sofia Coppola ha trovato in una delle opere massime di Kevin Shields, scegliendola come colonna sonora di uno dei momenti più toccanti e allo stesso tempo onirici di “Lost in Translation”. Una giovanissima Scarlett Johansson che ci mostra una Tokyo in notturna, con la sua vita frenetica e le sue luci accecanti da dentro un taxi. È proprio un taxi che ti porta a casa, il posto sicuro dove riflettere su come un amore che sta nascendo sia sbilanciato e fugace, stupendo e irrealizzabile. Un po’ come tutto Loveless che ha rischiato di essere irrealizzabile per via dei costi che stavano mandando la Creation Records in bancarotta. (Riccardo Ricci)

9. Blown a Wish – 3:36 (Shields/Butcher)

“Non c’è più niente da fare una volta innamorato, sarò la tua morte”.

Il topos è quello dell’amore che incatena, tipico della letteratura e dell’arte di ogni tempo. È questa storia di amore e possesso totale che ci narra la sempre più sfuggente voce di Belinda Butcher. L’impasto sonoro creato dalle innumerevoli sovraincisioni è in grado di cullare in una maniera così dolce e rassicurante che all’ascoltatore non rimane nulla da fare se non cedere senza esitazioni a un caldo abbraccio sonico. (Eulalia Cambria)

10. What You Want – 5:33 (Shields)

I tre brani conclusivi di “Loveless” regalano uno stato di trance misto a euforia tra rave e pista da ballo di un club, un saliscendi dovuto nel 1991 all’assunzione di ecstasy e in cui la musica di New Order e Primal Scream fungeva da perfetta colonna sonora: con “What You Want” viene voglia di pogare e cantare, nell’incrocio tra i Sonic Youth di “Daydream Nation” per le sonorità grintose e i Cure di “A Head In The Door” nel gusto melodico. Forse è del disco la traccia più americana, legata tanto agli stilemi punk di un loro classico, “Feed Me With Your Kiss”, quanto all’indie-rock che si suonava tra New York e Minneapolis. Imperdibile anche la coda di “What You Want”, momento da quiete dopo la tempesta che aggiorna la lezione sperimentale di “Revolver”: del resto “Loveless” per Kalporz è un classico agli stessi livelli. (Matteo Maioli)

11. Soon – 6:58 (Shields)

In chiusura di scaletta troviamo la maestosa “Soon”, già presente nel precedente EP, che accompagna dolcemente l’ascoltatore verso la fine del disco con i suoi sette minuti di lunghezza. Tanti? Considerando che il disco si sviluppa attraverso mutazioni della più classica forma canzone, forse sì. Troppi?  Assolutamente no. Con il suo ritmo breakbeat, i suoi riff di chitarra e le sue voci affogate in un’atmosfera onirica, “Soon” è come un sogno (o meglio, seguendo il testo, un incubo) nel quale il tempo si dilata tra l’infinito e il secondo fino a quando, di soprassalto, ti risvegli. (Matteo Mannocci)