Come si traduce “Kid A”: ce lo spiega Giuseppe Manuel Brescia

Venerdì scorso abbiamo festeggiato il ventennale di “Kid A”, e nel farlo abbiamo segnalato il libro, appena uscito, “This isn’t happening. La storia di Kid A” (Rizzoli).
La lettura della versione italiana del libro di Steven Hyden ed alcune particolari scelte lessicali ivi contenute ci hanno spinto a intervistare il traduttore, Giuseppe Manuel Brescia, e ne è venuto fuori un bel confronto anche sull’arte della traduzione.
Buona lettura.

Innanzitutto, per i lettori, Ti chiedo di presentarti e di raccontare un po’ dei tuoi lavori di traduzione di cui sei più contento.
Innanzitutto grazie dell’attenzione. Un vecchio adagio sostiene che un buon traduttore debba essere “invisibile” ma c’è chi lo prende fin troppo alla lettera, tanto che spesso non veniamo neppure citati nelle recensioni. Quindi un’intervista è un’esperienza decisamente insolita, e assai gradita.
Mi chiamo Giuseppe, sono nato e cresciuto a Savona, e dal 2005 vivo in Australia. A ben vedere traduco fin da ragazzino, da quando mi dilettavo col dizionarietto Collins spinto dalla necessità di capire cosa diavolo dicessero Michael Stipe, Thom Yorke, Billy Corgan, e compagnia, oltre che i personaggi dei giochi di ruolo su cui perdevo gli occhi attaccato al mio primo computer. Ho iniziato a tradurre libri nel 2006, quando, dopo l’intercessione della mia indiscussa maestra Anna Maria Biavasco, sono riuscito a conquistarmi una prova di traduzione per il grandissimo Edoardo Brugnatelli di Strade Blu, e, in qualche modo, a convincerlo a darmi un’opportunità.
Dopo diverse soddisfazioni, per alcuni anni mi sono poi limitato a traduzioni tecnico/legali (assai più facili e al contempo assai più redditizie delle traduzioni editoriali, considerazione importante per un padre di famiglia con un mutuo da pagare) ma l’anno scorso ho notato che mi stava avvizzendo l’anima e sono tornato in pista insieme all’amico Giuseppe Iacobaci, e da allora ho ripreso con grandissimo piacere.
I libri di cui vado più fiero sono “Fatto da Dio” (titolo originale: “Dermaphoria”) di Craig Clevenger, edito da Fanucci, “Galveston” di Nic Pizzolatto (prima che facesse il botto con “True Detective”) e “Ogni cosa è importante” (“Everything Matters”) di Ron Currie Jr, entrambi usciti per Strade Blu. Devo dire però che con 25 titoli all’attivo mi sento in colpa a far figli e figliocci, e non citare perlomeno Eoin Colfer, James Thurber, e Philip K. Dick. Poi ci sono due o tre gemme mai pubblicate per questioni economiche, ma così va l’editoria.

Come ti trovi con la traduzione di libri musicali in generale?
Considerando che dai 16 ai 18 anni volevo fare la rock star, che scrittura e musica sono le mie più grandi passioni, e che ancora oggi mi diletto con la musica nel pur pochissimo tempo libero, direi che ci vado a nozze. Questo però è soltanto il terzo libro di argomento musicale che ho avuto occasione di tradurre. Ho tradotto l’autobiografia di un gigante poco noto come Dave Van Ronk, uscita col titolo di “Manhattan Folk Story”, e il divertente “Killing Bono” di Neil McCormick, entrambi editi da BUR.
Stavolta però è stata un’esperienza decisamente speciale, dato che Van Ronk l’ho scoperto praticamente col libro, e gli U2, per quanto siano dei mostri sacri, non mi hanno mai entusiasmato più di tanto, mentre essendo cresciuto a pane e rock alternativo anni ’90 i Radiohead sono uno dei miei gruppi preferiti di sempre.

Escludendo la narrativa, per cui questa domanda non ha senso, in generale credi che per un traduttore sia più importante conoscere la materia oggetto del saggio oppure la lingua dello scrittore nelle sue sfumature più particolari (dialettismi, slang, ecc.)?
Proverbiale domanda da un milione di dollari. Per la traduzione tecnica è importantissimo avere conoscenze specialistiche. In campo editoriale sono meno determinanti, anche perché è raro che un saggio appetibile al grande pubblico scenda troppo nel tecnico. Certo, non capire una mazza degli argomenti trattati sarebbe un bell’ostacolo, ma in quel caso si rifiuta il lavoro. Per chi ha un’infarinatura circa la materia in questione, con i mezzi tecnologici di oggi si può imparare tanto e in fretta. Imparare bene una lingua straniera è tutt’altra storia. Quindi tendenzialmente ti direi che le conoscenze linguistiche contano di più. Però, se mi permetti, fra la busta A e la busta B scelgo la C: è ancora più importante conoscere a menadito la lingua d’arrivo – perdere sfumature è senz’altro un peccato, però sarebbe peggio ancora cogliere appieno tutte le sfumature della lingua dell’autore ma non saper scrivere in maniera paragonabile in italiano.

Arriviamo dunque a “This Isn’t Happening”: l’edizione italiana è uscita in contemporanea con l’uscita mondiale, ovviamente visto l’anniversario dei 20 anni, sei riuscito a lavorare come volevi o hai dovuto fare nottate per concludere la traduzione?
I tempi erano stretti, ma mi è capitato di peggio, e nonostante qualche settimana di superlavoro, non ho mai dovuto fare le ore piccole. Certo, una revisione in più me la sarei concessa volentieri, ma devo dire che tradurre è un po’ come essere i Radiohead durante la lavorazione di Kid A o di In Rainbows. È praticamente impossibile raggiungere un punto in cui il lavoro ti sembra finito, e dopo un po’ si rischia di ritrovarsi a fare e disfare come Penelope, solo che ci pagano a cartella e non all’ora, quindi ben vengano le scadenze urgenti e tante grazie a chi si occupa delle revisioni con occhi freschi.

Ho molto apprezzato alcune traduzioni di termini in un linguaggio, mi si permetta, molto “kalporziano” (“spacca” riferito a “Pablo Honey”, “scribacchino” per il critico musicale, noi utilizziamo molto marcatamente queste parole con una rubrica che si intitola “questo spacca!” e “scribacchino” è il modo in cui ci siamo sempre definiti, un po’ per prenderci anche meno sul serio; sono parole comuni però nemmeno tanto…). “This Isn’t Happening” è stato un libro complicato dal punto di vista della necessità di equivalenze dinamiche?
Mi fa molto piacere. Diciamo che tutti i libri sono complicati dal punto di vista delle equivalenze dinamiche (a proposito: chapeau per l’uso della terminologia da vero linguista) ma in questo caso non è stato troppo difficile, dato che il linguaggio musicale, pur con le sue specificità, ha una sua universalità, e in italiano tendiamo comunque a usare un bel po’ di gergo inglese. Diventa dura quando ci sono riferimenti a dialetti, socioletti, o fenomeni culturali a noi lontani o proprio sconosciuti, ma in questo caso non ci sono stati grossi problemi.

Classica domanda: sei stato in contatto con l’autore? Lo ritieni un modo necessario o forse limitativo, che possa “imbrigliare” un po’ il risultato, di lavorare su una traduzione?
Stavolta non ho avuto né il tempo (purtroppo) né la necessità (per fortuna). In passato l’ho fatto spesso, ma, come dicevo prima, ormai è difficile che abbia bisogno di chiarimenti dal punto di vista linguistico, quindi sarebbe piuttosto questione di verificare l’intenzione che stava dietro a un passaggio ambiguo, oppure semplicemente di concedersi il lusso di una chiacchierata con l’autore. La cosa bella è che gli autori rispondono sempre con entusiasmo, e apprezzano all’istante la cura e l’attenzione che vanno messi nel nostro lavoro.

Ti è capitato di tradurre il libro con “Kid A” in sottofondo?
Assolutamente sì. Kid A in sottofondo per tutti i passaggi nel quale se ne parlava (o spesso la canzone in particolare di cui parlava il passaggio in questione) ma anche tutto il resto della discografia, visto che il libro riesce a ripercorrere, album dopo album, tutta la storia della band. E non è stata la prima volta, ho fatto lo stesso con gli altri libri di argomento musicale, ma non solo. Spesso una “colonna sonora” a tema aiuta non poco a immergersi nelle atmosfere del libro. È stata anche un’occasione per vedere con occhi più critici Pablo Honey e The Bends, per esempio, che adoravo da ragazzino, e apprezzare meglio i lavori più recenti, ai quali magari, complici le distrazioni dell’età adulta e l’interesse per altri artisti, non avevo dedicato l’attenzione che meritavano. E mi sono ritrovato ad ascoltare i demo degli On a Friday, o versioni live che non avevo mai ascoltato. Ciliegina sulla torta: in un capitolo Hyden cita il compianto David Berman, che, lo confesso, conoscevo a malapena e del quale, meglio tardi che mai, mi sono perdutamente innamorato.

Quale è il tuo sogno da traduttore? Cosa ti farebbe piacere tradurre nel prossimo futuro?
Il mio sogno era di tradurre solo libri, e solo libri che mi piacevano. Ma, se si fosse realizzato, oggi sarei parecchio squattrinato. Onestamente spero di continuare a tradurre un po’ di tutto, soprattutto autori emergenti, imparare cose nuove, e magari accaparrarmi l’opera prima di qualche talento che possa durare nel tempo e diventare il “suo” traduttore.

Vuoi raccontarci qualcos’altro di cui non abbiamo parlato nell’intervista e che invece vorresti dirci?
Come dicevo all’inizio, l’abitudine all’invisibilità c’è, e scrollarsela di dosso non è facile. Quel che mi verrebbe da dire per approfittare di questa rara “intervista al traduttore” è che queste cose bisognerebbe farle più spesso, e che quando leggiamo un libro di un autore straniero, lo stile che ci piace è un’invenzione del traduttore, per quanto ovviamente tenda a basarsi su alcune caratteristiche dello stile dell’autore. Le battute che ci fanno ridere, spesso, le ha dovute inventare di sana pianta il traduttore. Sarebbe bello che nelle recensioni se ne parlasse regolarmente, ma, come accennavo prima, spesso manca l’indicazione anche solo del nome del traduttore, e quindi ogni riferimento alla sua stessa esistenza, quindi torniamo al reame dei sogni di cui alla domanda precedente… Ma intanto grazie a voi per aver fatto il primo passo. Se tutti facessero altrettanto, partirebbe un circolo virtuoso che probabilmente culminerebbe in traduzioni ancora più riuscite e curate. Nel frattempo complimenti a voi, e buona lettura a tutti.

(Paolo Bardelli)

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