[#tbt] September(s) of Our Years: 11/09/2001

Pochi giorni fa abbiamo ricordato il terribile attentato che diciannove anni fa mise in ginocchio gli States e tutto il mondo occidentale. Quel tragico 11/09/2001 fu uno shock per ciascuno di noi. Non dimenticheremo mai cosa facevamo e dove ci trovavamo in quel giorno. Una delle poche voci a non tacere e ad alzarsi fu quella della musica.

L’undici settembre di diciannove anni fa uscirono, tra i tanti, due album più rilevanti e cruciali degli altri. Mi riferisco a “The Blueprint” di Jay-Z, uno dei lavori più completi, coerenti e appassiona(n)ti della sua carriera, probabilmente il suo disco più importante insieme al debutto “Reasonable Doubt” (1996), e a “Love and Theft” di Bob Dylan (le virgolette fanno parte del titolo, che è una citazione a un libro di Eric Lott sul blackface uscito alcuni anni prima), un capolavoro al pari del suo predecessore, “Time Out of Mind” (1997), e al quale avrebbe seguito, nel 2006, un altro disco pazzesco, “Modern Times”. Pressoché tutti i critici e fan – io compreso – li considerano, così come il recentissimo “Rough and Rowdy Ways”, tra i dischi migliori della carriera di Dylan, al pari di quelli che nei decenni precedenti avevano scritto altre pagine di musica straordinaria. Che cosa rappresentarono questi due album in relazione alla loro data d’uscita, in un giorno che il mondo non scorderà mai?

È un marchio, quello dell’11/09/2001, particolarmente drammatico. Corsi e ricorsi storici collegano persone ad altre, istanti cruciali al caso che li governa. Si pensi che il docente universitario, critico letterario e poeta Alessandro Carrera, uno degli studiosi (e traduttori) di Dylan più importanti di sempre, ha vissuto a New York, dove insegnava, dal gennaio ‘95 fino al 10/09/2001. Quel giorno volò verso Houston, dove vive e insegna tuttora. Proprio il giorno dopo sarebbe uscito il nuovo album di Dylan, l’autore sul quale aveva già scritto pagine illuminanti e del quale aveva già tradotto per Feltrinelli l’opera omnia. L’avrebbe aggiornata e ampliata nel 2016, poco tempo dopo il Nobel per la Letteratura a Dylan.

Corsi e ricorsi storici: il primo album del nuovo millennio di Dylan esce nel giorno in cui una tragedia immane si abbatte sulla sua città. L’uomo Robert Zimmermann, certo, è nato e cresciuto in Minnesota, ma l’artista Bob Dylan ha iniziato a essere qualcuno a New York, dove giunse all’inizio dei Sixties con una valigia e una chitarra malmesse. Quante profezie inquietanti nel suo “Love and Theft”, a dimostrazione che i geni sono sempre i perfetti interpreti dei tempi che vivono e di quelli che verranno. Nella abbacinante e romantica “Mississippi” il narratore a un tratto si ferma a esaminare una scena da incubo: «Sky full of fire, pain pouring down». Il cielo è pieno di fiamme, il dolore scende come un diluvio. Dylan aveva scritto il brano nel ’97. Anche nel pezzo d’apertura del disco, l’oscura e minacciosa “Tweedle Dee & Tweedle Dum”, c’è chi ha notato sinistri presagi. Nel primo verso i due personaggi “lanciano coltelli in un albero”. Qualcuno ci ha letto una rappresentazione metaforica dello schianto degli aerei sulle torri.

Al di là di queste curiose letture, un album così inquieto, poetico e denso, negli stili e nei temi, un album che nel 2009 Newsweek decretò il secondo miglior disco di quello stesso decennio, sembrò sin da subito qualcosa al quale aggrapparsi dopo un disastro simile. Bisogna aggrapparsi ai poeti, si sa, e, come disse Allen Ginsberg, Dylan è uno dei grandi poeti statunitensi. Non furono pochi, quel giorno, quelli che si aggrapparono a Dylan. Quando, due mesi dopo, Dylan si esibì a New York, al Madison Square Garden, disse questo, commosso, al suo pubblico: “La maggior parte delle canzoni che abbiamo suonato stasera le ho scritte in questa città. Il mio ultimo album l’ho registrato in questa città. Non c’è molto altro che possa dire su questa città.”

Da un newyorchese de facto a un newyorchese de iure. Jay-Z è nato a Brooklyn nel ’69 e a New York è cresciuto e ha iniziato a rappare. Amico e collaboratore di Notorious BIG, sul suo debutto, “Reasonable Doubt”, aveva ospitato proprio il grande Biggie nel brano “Brooklyn’s Finest”, il cui titolo è già di per sé evocativo, un manifesto nel quale i due rapper si divertivano a competere tra loro e Jay-Z cercava di avvicinarsi ai livelli di Biggie.

Corsi e ricorsi storici, ancora. Uno dei dischi più rilevanti e più affascinanti di Jay esce proprio nel giorno in cui la sua città è colpita da un attentato atroce. Nonostante ciò – o forse anche a causa di cio, perché, come dicevamo, chi assiste a una tragedia tale si affida ancora di più all’arte – “The Blueprint” riuscì a vendere 426mila copie nella sua prima settimana, esordendo al primo posto nella Billboard 200. Era stato registrato a Manhattan solo pochi mesi prima.

“The Blueprint” è un disco accattivante e composito. Accanto a non pochi brani più aperti e ariosi, buona parte del disco è segnata da pezzi taglienti e polemici, come la controversa “Takeover”, dove Jay si scaglia contro Nas e Prodigy dei Mobb Deep e che brilla per i samples di “Five to One” dei Doors e di “Fame” di David Bowie. Particolarmente intriso di interpolazioni soul, con campionamenti di brani di Al Green, Jackson 5 e David Ruffin, “Blueprint” si distacca da questo sound caldo e vintage solo in pochi episodi, come in “Renegade”, dove compare Eminem, unico featuring artist del disco, e “Jigga That N**a”, particolarmente claustrofobiche e ansiogene.

La composizione di “Blueprint” aveva segnato anche un periodo complesso per Jay, che stava affrontando due processi ed era stato criticato da parecchi colleghi. Il disco fu registrato e prodotto circa in due settimane. Sette canzoni furono incise in un solo weekend e Jay scrisse i testi in due giorni. Quattro tracce su tredici furono prodotte da un giovane Kanye West, ai tempi sconosciuto, e tre da Just Blaze, altro produttore il cui breakout arrivò proprio grazie a “Blueprint”. Jay-Z, insomma, ci aveva visto benissimo, raggruppando intorno a sé le persone più giuste per creare il sound che aveva in testa.

Rolling Stone piazzò “Blueprint” al quarto posto nella lista dei migliori dischi degli ‘00s e nel 2019 la Library of Congress lo ha inserito all’interno del suo National Recording Registry. La coincidenza della sua pubblicazione con gli attentati alle Torri non ne scalfì – anzi, forse ne aumentò – la potenza e il riverbero. Quel “sentimento” (americano) di prosperità e di dominio che tanto gangsta rap per anni aveva cantato sembrava giunto, quel giorno, a un punto di non ritorno. “Blueprint” rappresentò qualche cosa di nuovo. In “Bye and Bye”, quarta traccia di “Love and Theft”, Dylan, citando, come in molti altri passi del disco, la letteratura latina e la storia romana, canta: «I’ll establish my rule through civil war». Forse gli States, di lì a poco, avrebbero fatto lo stesso.

(Samuele Conficoni)