Il Covid mette in difficoltà la Siae e le etichette

Il Covid ha affossato tantissime aziende, e il business della musica è uno dei più maltrattati, soprattutto perché le conseguenze del blocco dei concerti si continuano a far sentire oltre il lockdown.

In Italia la SIAE, che ancora gestisce la quasi totalità dei diritti d’autore e dei diritti connessi degli artisti italiani, per via dell’equilibrio “alla italiana” tra la precedente esclusiva e il nuovo schema giuridico liberalizzato come da Direttiva 2014/26/UE (la cosiddetta Direttiva Barnier), dopo richiami e procedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza per abuso di posizione dominante e interventi legislativi ad hoc che in ogni caso non hanno terminato la battaglia legale tra Siae e Soundreef (conclusasi solo con un accordo il 19 aprile 2019), versa in una situazione difficile. E gli autori, si sa, si sostengono anche con la ripartizione dei loro diritti d’autore, soprattutto in un momento in cui gli introiti diretti per i concerti sono venuti meno (per non parlare delle vendite e degli incassi dallo streaming, che languono da ben prima del Covid).

Qualche giorno fa Pietro Ietto, vicedirettore generale Siae, nel corso di un’audizione presso la commissione Cultura del Senato, come riportato da AgCult, ha dichiarato: “La situazione è molto difficile, in questi quattro mesi di chiusura gli incassi per il diritto d’autore si stanno attestando verso una riduzione di circa 300 milioni di euro. Risorse che mancheranno all’appello nei confronti dei nostri associati, che vedranno così una sensibile riduzione delle loro ripartizioni e quindi delle loro fonti dirette. Da marzo a giugno abbiamo perso oltre 600mila eventi sul territorio nazionale, serve che il settore abbia sostegni con misure di iniezione di liquidità concreta”. Ancora prima, il 23 giugno, Repubblica così titolava: “Siae: prestito da cinque banche e immobili in vendita“.

E se in Italia il mercato musicale non se la passa bene, pure negli States i segnali non sono buoni: il programma di prestiti del governo federale Paycheck Protection Program, per aiutare a mantenere i dipendenti sul libro paga nel bel mezzo della pandemia, è stato utilizzato anche da diverse aziende dell’industria musicale, tra cui diverse etichette discografiche indipendenti come la Sub Pop Records, Third Man Records, Knitting Factory Records, Dreamville Records, Light in the Attic, ATO Records, Dim Mak, Rostrum, Cleopatra e Stones Throw Records. I prestiti vanno da circa 150.000 a 350.000 dollari, e appunto sono stati mirati a non licenziare i dipendenti e a pagarli durante il lockdown.

La pandemia cioè sta aumentando esponenzialmente i problemi di liquidità già presenti nel mondo della musica da molti anni, e non si intravede ancora la fine: né del Covid né dell’equilibrio economico in questo settore.

(Paolo Bardelli)