THE MAGNETIC FIELDS, “Quickies” (Nonesuch, 2020)

Questa recensione cercherà di essere brevissima, in tema con l’oggetto di discussione: un nuovo album dei Magnetic Fields, “Quickies”, di ventotto brani della durata oscillante tra i diciassette secondi e i due minuti e trentacinque. Esperimento che segue altri progetti arditi del leader Stephin Merritt come un libro di poesie (“101 Two-Letter Words” del 2014) e il favoloso “50 Songs Memoir”, dal quale l’ultima raccolta si distingue per l’impianto prevalentemente acustico – le tracce si reggono volentieri su un solo strumento, esemplare “The Little Robot Girl” – e per una narrazione grottesca e noir (“Kill A Man A Week”, “I’ve Got A Date With Jesus”).

“Quickies” è un disco più corale, oltre a Merritt ascoltiamo le voci di Claudia Gonson e Shirley Simms, e radicato nella tradizione americana: “The Biggest Tits in History” omaggia Little Richard mentre “Come, Life, Shaker Life!” potrebbe essere una out-take di “Illinois” di Sufjan Stevens; la frizzante “The Price You Pay” torna indietro all’epoca del cabaret e “Love Gone Wrong” alle nenie dei Velvet Underground. Tra immediatezza e melodie catchy emergono comunque tre brani da antologia; partendo da “(I Want To Join A) Biker Gang”, fanfara condita di synth eighties e trombe squillanti, si vira sul minimalismo di “The Day The Politicians Died” con il suo testo programmatico, We’ve got the taste for blood/So let’s eat all the priests. “Kratwerk In A Blackout” è il gioiello dell’album: tanto per le sue coincidenze storiche (la scomparsa di Florian Schneider, la crisi globale per il Covid19) quanto per una malinconia di fondo che si trasforma in voglia di ballare al 1:08.

Destinato ai fan accaniti, “Quickies” esce in cinque vinili a sette pollici e verrà eseguito nelle city winery di Atlanta, Chicago, Nashville, Boston, NYC, Washington DC e Philadelphia ad inizio 2021.

71/100

(Matteo Maioli)