WOODS, “Strange To Explain” (Woodsist, 2020)

In “Strange to Explain”, il loro undicesimo album, il primo dopo la collaborazione con David Berman sullo splendido “Purple Mountains”, i Woods ritornano alle loro radici non dimenticando alcune delle sperimentazioni sonore che hanno provato a intraprendere negli ultimi anni. Il successore dell’incostante “Love Is Love” (2017) è il primo lavoro firmato dai Woods dai tempi dell’EP registrato coi Dungen nel 2018. “Love Is Love” era stato un album politico, una grossa novità rispetto a tutti i lavori precedenti del gruppo. Quel disco, scritto subito dopo le elezioni del 2016, era confuso e poco ispirato, pieno di indignazione e di rabbia. Questa rabbia adesso scompare per dar spazio a un approccio delicato e intimista.

Del rock lisergico e di certi flirt nei confronti del funky che caratterizzavano “Love Is Love” non resta molto in questo nuovo disco. Ciò che rimane, però, è cruciale per l’evoluzione sonora dei Woods. Se “Strange to Explain” rientra nei ranghi di quel folk riflessivo e bucolico che i Woods hanno da sempre abbracciato, la band non ha paura di addentrarsi in territori psichedelici, electropop, acid rock. Ne è un esempio evidente l’apertura affidata a “Next to You and the Sea”, ambientale e sabbiosa, che sembra scivolare dalle mani ogni volta che si provi a fermarla. Siamo più vicini ai Woods a cavallo tra Anni Zero e Anni Dieci, ma in questo sound c’è qualcosa di inedito. Ora il gruppo è più ordinato di un tempo e sembra voler evitare quella “anarchia iperattiva” dei primi dischi. Pur lontani dai lavori migliori, come “Songs of Shame” e “At Echo Lake”, i Woods sembrano aver ritrovato l’ispirazione.

La band di Brooklyn non è mai scesa a compromessi e non ha mai pensato di stravolgere le proprie convinzioni e filosofie musicali. Il suono di “Strange to Explain”, però, aggiunge qualcosa di originale al discorso artistico che la band porta avanti, con ottimi risultati, da più di tredici anni. Si appoggia, ad esempio, a ritmi incalzanti e seducenti nei brani che hanno anticipato l’album, la title track e “Where Do You Go When You Dream?”. “I see old friends when I sleep”, canta Earl in quest’ultima, alzando improvvisamente il tono e l’intensità della voce su un tappeto ipnotico di chitarre e percussioni fittissime. È una frase che non passa inosservata durante un lockdown mondiale. Maliziosa e divertita è anche “Strange to Explain”, dove i Woods abbracciano un feeling che hanno spesso rincorso ma non sempre catturato. C’è un’intesa che su “Love Is Love” era evidentemente mancata. Parlando qualche giorno fa all’NPR, Jeremy Earl, chitarrista, cantante e leader del gruppo insieme a Jarvis Taveniere, ha dichiarato di essere diventato padre di recente. Tra i temi che hanno ispirato l’album ci sono la sua difficoltà ad addormentarsi nei mesi successivi all’evento e il suo bisogno di lasciare per un momento da parte le tensioni che la paternità porta con sé. Anche la collaborazione con Berman per “Purple Mountains”, peraltro prodotto da Taveniere ed Earl, ha lasciato nel gruppo un segno profondo.

Ritornata, dopo “Love Is Love”, entro un habitat a lei più congeniale, la band osserva ogni cosa con freschezza e coerenza. Pezzi come la ninnananna “Just to Fall Asleep” creano atmosfere oniriche e fiabesche grazie a una melodia semplice combinata con raffinati rimandi all’infinito sottobosco del folk. La dolcissima “Be There Still” è cucita all’interno di un universo dove il tempo è sospeso e le voci disegnano percorsi invisibili agli occhi. In “Before They Pass By” e nella pungente “Fell So Hard” il gruppo si affida ad arrangiamenti moderni, bizzarri, carichi di una aggressività rara nei loro dischi. Nella brillante “Weekend Wind”, che chiude il disco, i cinque raggiungono un perfetto equilibrio tra sound contemporaneo e approccio classico al folk.

Non mancano momenti lisergici che guardano alle sperimentazioni di “Love Is Love” e che qui non appaiono forzati. In “Can’t Get Out” i Woods spingono l’acceleratore e danno vita a un rock ritmato ed eccentrico. Qui le tastiere flirtano addirittura con l’electropop Anni Dieci, modellando così uno degli episodi più affascinanti e solidi dell’intero album. L’intermezzo strumentale “The Void”, che connette tra loro due diverse fasi dell’album, ha un ritmo e un groove esaltanti. Pur tornando a muoversi in territori già visti e non cercando rivoluzioni, i Woods propongono deviazioni che quasi sempre convincono e, in alcuni casi, stupiscono. Le inconcludenti torsioni di “Love Is Love” non sono state dimenticate del tutto e ora vengono reinterpretate in maniera coerente. Questo elemento depone a favore della band: a quanto pare i cinque non amano stare immobili. Dai Woods possiamo ancora aspettarci di tutto.

73/100

(Samuele Conficoni)