ULTRAÍSTA, “Sister” (Partisan Records, 2020)

Via il dente via il dolore: il secondo album degli Ultraísta di Nigel Godrich è una delusione. Piuttosto cocente. Nel 2012 quando il produttore dei Radiohead si era buttato nella mischia per far vedere di che pasta era fatto anche oltre il bancone del mixer, aveva – se non assestato una zampata da leone – messo la sua impronta su quel lontano 2012. L’album omonimo, infatti, pur non avendo raggiunto moltitudini o fatto sfracelli, aveva una sua omogeneità e tirava le fila del percorso elettronico di Godrich con l’abbellimento della voce non simpatica a pelle (del resto le cantanti mica devono essere simpatiche, devono essere brave…) ma struggente di Laura Bettinson.

Sono passati otto anni da allora, no? Ecco, il problema è che da “Sister” non sembrerebbe. Gli Ultraísta sono fermi a quella prima prova davanti sul palcoscenico globale, usano gli stessi suoni su medesimi andamenti e identici fraseggi. Ma, come sappiamo, in questi otto anni è cambiato il mondo, è arrivato Spotify, il nu-soul, Frank Ocean, Kendrick Lamar e insomma non si può fare qui l’elenco dello sconvolgimento musicale di cui siamo stati spettatori ma è ormai stato digerito/riscontrato da tutti. Godrich sembra invece prigioniero di se stesso, delle sue certezze, e quando a queste si associa la straordinaria fecondità compositiva di Yorke, come nell’ultimo “Anima” del frontman dei Radiohead, allora le cose vanno bene (ma comunque anche “Anima” – album meraviglioso, eh – non è innovativo nei suoni, e una elettronica che si definisca tale deve avere in sé una quota di sperimentazione con gli strumenti tecnici che nel frattempo vengono a disposizione), ma oggi in “Sister” tutto sa di già sentito e poco ispirato. Ci sono episodi che si salvano in sé, “Save It ’til Later” che si posiziona sulla scia della bellissima “You’re Out” del primo album e “Ordinary Boy” che si sintonizza appunto sull’ultimo Yorke di “Anima”, ma è poca roba e poi – come si è sottolineato – trattasi comunque di derivazione.

Non vorremo che “Sister” attestasse un definitivo inaridimento delle pennellate fantasiose a cui eravamo abituati da lui, e in effetti anche guardando l’elenco delle sue produzioni negli Anni Dieci si nota un certo rallentamento e alcuni schemi che si ripetono (“Is This the Life We Really Want?” di Roger Waters che pare una outtake dei settaggi degli equalizzatori di “Sea Change” di Beck). Nessun dramma, non sempre le ciambelle escono col buco e non si può creare sempre capolavori. Però stavolta “Sister” lo archiviamo e cerchiamo di dimenticarlo in fretta, ok Nigel?

50/100

(Paolo Bardelli)