AFA No. 18: Tinariwen, “Amadjar” (PIAS, Wedge, 2019)

Il nuovo disco dei Tinariwen segue la scia di “Emmaar” e “Elwan” e si accoda a quella nuova fase nella storia del gruppo aperta con la pubblicazione di “Tassili” nel 2011, quando dopo aver realizzato la “summa” della propria produzione artistica con “Aman Iman” (2006) e “Imidiwan” (2009), il gruppo sbarcava negli USA e registrava questo album con la collaborazione di Kyp Malone dei TV On The Radio e la produzione di Ian Brennan. Il disco è considerato punto più alto della produzione dei Tinariwen, ma in verità è il peggiore. La produzione cercava di accomodare il sound dei Tinariwen al gusto occidentale, ma quello che ne usciva era un album privo del furore e delle suggestioni sciamaniche tipiche dell’universo “tuareg”.

Ciononostante, la collaborazione, diciamo così, con gli US è poi proseguita con gli album “Emmaar” (con la presenza dei vari Josh Klinghoffer, Fats Kaplin, Matt Sweeney e Saul William) e “Elwan” (Matt Sweeney, Kurt Vile, Mark Lanegan, Alain Johanne), anche se in questi casi il livello è sicuramente più alto perché sono questa volta gli altri musicisti coinvolti e la produzione a mettersi al servizio del sound Tinariwen. E lo stesso succede qui con questo disco ultimo intitolato “Amadjar” e in cui la ennesima reincarnazione del gruppo (Ibrahim Ag Alhabib, Abdallah Ag Alhousseyini, Alhassane Ag Touhami, il bassista e chitarrista Eyadou Ag Leche e il chitarrista Elaga Ag Hamidi, il polistrumentista Said Ag Ayad e il percussionista Amar Chaoui) incrocia dei big del mondo della musica pop come Warren Ellis, Cass McCombs, Micah Nelson (il figlio di Willie che suona nella band di Neil Young) e Stephen O’Malley, Rodolphe Burger…

Sono musicisti importanti e dal valore indiscusso, eppure il loro contributo alle diverse tracce dell’album, il cui titolo significa poi “viaggiatore straniero”, come succedeva nei due album precedenti (metterei “Elwan” un gradino più sopra sia rispetto a “Emmaar” che questo qui) non aggiunge nulla al sound originale del gruppo e la ragione di questo è molto semplice: il sound dei Tinariwen è perfetto, non ha bisogno di additivi e non si presta a nessuna modifica. Il gruppo costituisce, anche se ha fatto “scuola”, un unicum nella storia della musica e questa non si presta a nessun “personalismo”: il suono dei Tinariwen è la voce del popolo tuareg, ha migliaia di anni e migliaia di volti e di voci che si sovrappongono una all’altra. La faccia di centinaia di anni.

Parlare delle singole tracce in sé sposta poco pure questa volta, la formula è la stessa e la conclusione finale è che questo disco non si erge sugli altri, né spicca in particolar modo. Né sfigura. I pezzi più interessanti restano quelli con la collaborazione di Noura Mint Seymali (“Zawal”, “Amalouna”, “Takount”) e paradossalmente quelli senza nessuna collaborazione, “Anina”, “Madjam Mahilkamem”, “Lalla”.

Il disco esce su Wedge/PIAS ed è stato registrato tra Sahara occidentale e Mauritania, Algeria e Parigi. Sicuramente considerato dalla critica, forse non esalta il pubblico come qualche anno fa: la causa tuareg non fa più tanto notizia, i tempi della primavera araba sono finiti e non importa più nulla a nessuno oppure parliamo delle carceri in Libia ma senza considerare tutto quello che ci sta dietro. Siamo come sempre miopi. Eppure vale sempre la pena di diffondere il verbo Tinariwen anche per questo e perché questa è musica per l’anima e lo spirito e che ti apre la mente e ti fa vedere.

68/100

(Emiliano D’Aniello)