The Cure, Visarno Arena, Firenze Rocks, 16 giugno 2019

Ma chi glielo fa fare a Robert? Intendo di salire ogni volta sul palco con la passione che anche ieri sera il cantante dei Cure ha trasmesso ai “circa 50.000 spettatori” di Firenze. I Cure fanno dei tour mondiali mastodontici, suonano tantissimo rispetto alla media di altre band (anche ieri sera 2 ore e mezza, ed era un Festival dove può essere che non facciano le 3 ore a cui ci hanno abituato negli ultimi passaggi italiani, ovvero Milano 2012 e Bologna 2016), Robert Smith ha 60 anni e Simon Gallup uno di meno, ci si aspetterebbe che si risparmino un poco, magari che facciano qualche pausa in più, che suonino con meno furia, con meno intensità, e anche per assurdo – qualche volta – si sarebbe pronti all’idea che suonino come lavoro e non con l’anima.

E invece no. Anche questa volta (la nona del sottoscritto) i Cure hanno sbaragliato tutti i concetti di dedizione ai fans e rispetto nei confronti della propria musica e di quello che quest’ultima ha significato per le persone. Perché i Cure sono tra i pochi che riescono incredibilmente ad essere equilibrati nella necessità di riordinare e rimodernare le scalette in ogni nuovo tour facendo entrare canzoni outsiders a cui evidentemente sono affezionati, senza scontentare gli accorsi al concerti (tra cui molte volte non ci sono solo approfonditi conoscitori della band ma anche semplici amanti dei Cure perché “ascoltati in radio”) che – insomma – “Boys Don’t Cry” la vogliono sentire, no? C’è una profonda consapevolezza della propria carriera, di tutti i passaggi emozionali della stessa e soprattutto di quanto quelle svisate tra punk-rock degli inizi, dark successivo, pop gothico di fine anni ’80 e rock nei ’90 hanno potuto rappresentare per gli ascoltatori più appassionati, per i quali anche la loro vita è stata colorata da quei voli pindarici del cuore di Robert a fare da colonna sonora. La vita di Robert è, in ultimo, diventata anche la nostra vita, e gli si vuole ancora più bene a Smith quando si capisce che lui è in pace con ogni passaggio della sua vita (musicale) e ripesca canzoni da ogni periodo ed ogni album, perché vuol dire che anche noi possiamo riconciliarci con ogni nostra scelta. Forse si sta un po’ divagando, ma forse un po’ no perché un concerto dei Cure non è la setlist, è un momento – almeno per il sottoscritto – per fare il punto di come siamo cresciuti (e invecchiati) insieme a Robert.

E Smith ci ha folgorato ancora una volta: ci ha sorpreso con un inizio sognante in cui hanno fatto bellissimo sfoggio di loro “Just One Kiss” (pochissimo suonata, solo 14 volte in tutta la loro carriera) e “Last Dance”, ma anche una “Wendy Time” (con Smith al cembalo!) anch’essa pochissimo frequentata dal vivo, per poi virare – ed è stata la parte davvero indescrivibile come potenza – nella loro produzione più scura. Sfido chiunque a tenere dietro al ritmo di “Primary”: i Cure la interpretano come se non ci fosse un domani, e noi siamo capaci di avere la stessa intensità nella nostra vita? (ascoltatevi bene la parte dopo il minuto 3:00 del video, in particolare lo stacco al minuto 3:25, la salivazione si azzera):

Ma non è la sola song suonata con una forza forsennata, bisogna aggiungerci “Never Enough”, “One Hundred Years” e l’infuocata (anche per via del testo e delle immagini che scorrono dietro il palco) “39”. Discorso a parte per due canzoni: la magnifica “Want”, suonata sempre con quella malinconia estrema che solo il testo può far capire (“However hard I want / I know deep down inside / I’ll never really get / More hope or any more time”), che ci fa chiedere se sapremo anche noi imparare dalla mancanza di speranza e di tempo, e la indistruttibile “A Forest”, che zittisce tutti (piccolo appunto polemico sulle avvertenze sovraimpresse sul palco da Vedder la sera prima di non far rumore: Eddie, il pubblico non fiata se tu crei le condizioni per essere rapito dalla tua musica, non se lo redarguisci prima dell’inizio del concerto) perché chiunque è trasportato da qualche altra parte per cui non ha proprio il tempo e la voglia di parlare, forse nemmeno di respirare.

I Cure sono maestri nel diversificare le atmosfere e i linguaggi, per cui a questo sfoggio di energia e di temi gotici a loro cari fa poi seguito la parte finale più pop e rilassata, nella quale ovviamente si ripercorrono i classici che tutti vogliono ascoltare (tranne forse “Doing the Unstuck” che non si comprende come si ostinino a riproporre), e con delle versioni molto divertenti di “The Walk” ma soprattutto di “Caterpillar”, una canzone che svela dal vivo il suo lato più etereo e leggero. Robert Smith, liberatosi della chitarra, è più libero per ballare e sorridere, e anche noi balliamo e sorridiamo.

Il concerto finisce e Robert cammina di qua e di là sul palco per ringraziare tutti, torna indietro un attimo e sembra che voglia abbracciarci tutti, uno per uno. E poi si avvia con quella sua andatura tipica da eterno adolescente, un po’ claudicante e si scorge un bellissimo sorriso esausto.

I grazie non saranno mai abbastanza, ma al netto di tutto quello che abbiamo avuto la fortuna di aver ricevuto ieri sera, il grazie più grosso è per la nuova incredibile iniezione di vitalità donataci: dalla inestinguibile voce di Robert Smith (perché è -i m p r e s s i o n a n t e- che canti ancora così a 60 anni), dall’animosità mai doma di Simon Gallup che si fa chilometri sul palco sempre chino sul suo basso e tirando mazzate alle corde, dall’essere squadra degli altri tre.

E per averci ricordato, ancora una volta, cosa vuol dire suonare, anzi, vivere con passione.

(Paolo Bardelli)

Setlist:
Shake Dog Shake
Burn
From the Edge of the Deep Green Sea
A Night Like This
Pictures of You
High
Just One Kiss
Lovesong
Just Like Heaven
Last Dance
Fascination Street
Never Enough
Wendy Time
Push
In Between Days
Play for Today
A Forest
Primary
Want
39
One Hundred Years

Lullaby
The Caterpillar
The Walk
Doing the Unstuck
Friday I’m in Love
Close to Me
Why Can’t I Be You?
Boys Don’t Cry

foto pagina ufficiale Firenze Rocks (Francesco Prandoni, Elena di Vincenzo, Guglielmo Meucci)