The Cure, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (BO), 29 ottobre 2016

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Le prime sigarette fumate di nascosto all’uscita da scuola, i primi tiri nei vicoli del centro, le prime cadute nelle retrovie delle feste, dei locali, dei parchi cittadini, delle strade, delle case, dei fiumi, dei boschi, delle fermate degli autobus, degli scalini, dei marciapiedi. Le giornate passate in camera al buio ad ascoltare i Cure.

Prendo a prestito questo meraviglioso status social odierno dell’amica kalporziana Eleonora Ferri perché, più o meno, il concerto sarebbe tutto lì. Il vero live è quello. Però poi c’è tutto il contorno tecnico che proveremo ugualmente a raccontare, ma quello è il vero senso del perché il concerto di ieri sera – e in generale un concerto dei Cure – assume questo alone così speciale, così personale. Io mi sono commosso nei primi tre brani, i tre di apertura di “Disintegration”: mi è passata davanti tutta la mia vita. Anzi, ha ripreso possesso di me quell’adolescente che nel 1989 ascoltava “Disintegration”, il suo album della transizione verso la giovinezza. Sabato sera quell’adolescente si è con pazienza ricostruito quella cameretta, tutto quel mondo che non esiste più, e ci ha rituffato il presente adulto in odor di middle-age. Inevitabile commuoversi: potrei concentrarmi finché voglio in altre maniere (riguardando foto dell’epoca, tornando nei luoghi del tempo…) ma non riuscirei ad avere i risultati di un trittico del genere ascoltato dal vivo. E’ la creazione di un mondo parallelo, non ci sono altre spiegazioni. Ognuno ha un artista che gli fa questo effetto. Bene, il mio sono i Cure, e vedo che per molti è così.

Insomma in questa tornata le sensazioni sono state al contrario di Milano del 2008 dove avevo subito questa traslazione temporale solo nella chiusura del live, “carburando” per arrivare all’apotesi finale, questa volta lo sbam! è stato subito. Poi il concerto è sfilato via con una certezza: la voce di Robert non era all’altezza dei suo standard. Quella del 2012 all’Heineken Jammin’ Festival di Milano è stata un’esibizione migliore (stratosferica!) in questo senso: Smith aveva smesso di fumare e aveva ritrovato smalto alle corde vocali. Lo sta a dimostrare il live del Primavera Sound 2012 che si trova ancora sul Tubo. Nel 2012 Smith cantava meglio di quello che vidi negli anni ’90, e soprattutto era assolutamente a proprio agio sul palco: più scherzoso, più socievole. Ieri sera invece forse si accorgeva (standoci male) della limitatezza vocale, per cui anche il suo approccio generale è stato più statico, un po’ come ai vecchi tempi. Solo durante le conclusive “Close to Me” e “Why Can’t I Be You?” si è lasciato andare a qualche mossetta, facilitato dal fatto che in quelle songs non suona la chitarra, e ha lasciato la mattonella sul quale era fisso dall’inizio del concerto. Però Robert è intelligente, e ben conscio delle due ore e quaranta che lo aspettavano ha saputo dosare l’interpretazione vocale spingendo di più quando le atmosfere si facevano più minimali (come ad esempio in “If Only Tonight We Could Sleep”), dove pertanto non c’era il muro di suono degli altri Cure che poteva sopperire, e in qualche acuto “fondamentale” per la riconoscibilità della canzone in questione. Meno onorevoli episodi come “From the Edge of the Deep Green Sea” e “Disintegration”, sostanzialmente parlate e non cantate.

A livello sonoro i Cure sono invece stati sostenuti soprattutto dal basso di Gallup, e lì siamo dalle parti della certezza monolitica. Davvero non ci sono ulteriori aggettivi per tributare i giusti meriti a questo 56enne indomito dal ciuffo rockabilly (e ieri sera con la maglietta degli Iron Maiden!) che, curvo sul suo basso, gira ininterrottamente da un lato all’altro del palco. Il suo basso metallico è da Hall Of Fame, il suo suono è da campionare e far ascoltare alle generazioni che verranno come esempio unico nel genere.

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Le vette d’esecuzione – al di là del trittico iniziale – si sono raggiunte con una come al solito estremamente coinvolgente “Push”, una indescrivibilmente compatta “Shake Dog Shake” (con sullo sfondo i cinque pannelli che proiettavano le figure dei cinque Cure tra il bianco e nero e un rosso “copertina pornography”), una sorprendente “Want” e il primo encore totalmente dedicato a “Seventeen Seconds” con l’inossidabile “At Night”, la simpatica “M”, la trascinante “Play for Today” e l’immancabile “A Forest”. Menzione particolare per “Burn”, poche volte sentita dal vivo, risultata un po’ caotica ma fascinosissima in quel suo alone maudit.

Il terzo e conclusivo encore è stato quello dedicato al sorriso, alla parte aperta e positiva (e inevitabilmente con riscontro commerciale) dei Cure (che bella “Caterpillar”!), e quello ha fatto: il sorriso si è stampato sulla nostra faccia. E credo sia stato il modo migliore di Smith e soci per dirci arrivederci.

Post Scriptum
Il mio incipit nostalgico potrebbe sembrare ad uso e consumo solo delle vecchie calzette come il sottoscritto, ma in realtà ha un afflato più ampio: i Cure sono la band degli adolescenti per eccellenza, un po’ come i Doors, anche se da quell’età ci si è usciti da non molto. Per gli adolescenti un po’ problematici (e chi non lo è?), un po’ più malinconici (malinconia preventiva?), un po’ romantici (e chi non è?-2), di tutte le ere, i Cure saranno sempre la band che ricorderà loro la loro pubertà, i primi innamoramenti, le prime sconfitte, le prime ribellioni. E torniamo dunque all’incipit di Eleonora. Vedete che era già tutto lì?

Plainsong
Pictures of You
Closedown
A Night Like This
Push
In Between Days
The Hungry Ghost
alt.end
The Walk
Primary
If Only Tonight We Could Sleep
Shake Dog Shake
Charlotte Sometimes
Lovesong
Just Like Heaven
From the Edge of the Deep Green Sea
Prayers for Rain
Disintegration

At Night
M
Play for Today
A Forest

Want
Never Enough
Fascination Street
Burn

Lullaby
The Caterpillar
Friday I’m in Love
Boys Don’t Cry
Close to Me
Why Can’t I Be You?

(Paolo Bardelli)

foto tratte dal profilo fb di Unipol Arena