Intervista ai Mini Dresses

Boston è una città che cambia e vive nei suoi college, nelle sue scene underground e nelle controculture germinali. I Mini Dresses sono dei figli “imperfetti” di questa città e, dopo una lunga strada di EP e un primo album molto identitario e incisivo, sono pronti a tornare con il loro secondo lavoro che racconta una realtà diversa, sospesa tra fantasie e distopie.

Lira, Caufield e Luke si sono presentati con sincerità, parlandoci del loro rapporto vivo con la sala di registrazione e di tante altre cose. Nell’intervista ci hanno anche regalato alcuni consigli su alcune perle da riscoprire.

Il loro disco “Heaven Sent” uscirà il 22 marzo.

– La vostra è una carriera che è stata costellata da molti EP. In che modo il lavoro su così tanti EP diversi vi ha aiutato a raccontarvi in un album?

Non è stato affatto semplice! È stato difficile adattarsi ad un lungo ciclo di lavoro sul formato dell’album. Abbiamo iniziato a fare musica intorno al 2010-2011, quando i singoli nei blog erano il principale modo in cui le band DIY erano pubblicizzate. Per anni non ci era venuto in mente di fare un album perché non c’erano le risorse per farlo e sembrava che a poche persone sarebbe piaciuto ascoltarci in un formato più impegnativo. Abbiamo sempre prodotto i nostri EP in modo breve, spesso scrivendo le nostre canzoni e poi registrandole in un’unica seduta. Quando abbiamo sentito la pressione per produrre il nostro primo album nel 2016, ci siamo sentiti contemporaneamente consolidati come band, ma in un certo senso anche in ritardo nello scoprire questo “nuovo mezzo”.

Ci è sembrato innaturale per noi fare qualcosa lentamente, dato che abbiamo sempre lavorato con molta velocità.

– Quali temi avete cercato di affrontare in “Heaven Sent”?

Principalmente parliamo di interruzione nella comunicazione (comunication breakdown), di empatia che disperde in un attimo e di narrazioni di persone estremamente indecise, che ponderano all’infinito le loro opzioni di scelta.

– Nell’album si avverte una particolare attitudine ad usare e sfruttare i passaggi sonori in un modo simile alle colonne sonore di un film. Come vi hanno ispirato le colonne sonore del film? Quali in particolare?

Siamo appassionati di cinema e pensiamo alla nostra musica in modo cinematografico, come se stessimo creando una scena. Ne consegue che amiamo le colonne sonore dei film. Lira, infatti, ama le colonne sonore di film italiani, come quelle di Piero Umiliano; Caufield sta attualmente ascoltando la colonna sonora di Cannibal Holocaust, che è un classico della colonna sonora horror.

– Ci sono un sacco di canzoni interessanti sul disco che sembrano nascondere storie molto speciali. Come è nata Lady Running?

“Lady Running” è una delle canzoni di Lira più emozionanti che abbiamo inciso in questo disco, su un argomento ipotetico che non ha una corrispondenza diretta nella realtà!

– Il vostro è un rock elegante. Quali sono stati i vostri padri spirituali dal punto di vista sonoro? Come è nato il tuo rapporto così intimamente costruito con questo suono?

Grazie per aver usato il termine “elegante”! Siamo appassionati di musica a tempo indeterminato e amiamo la musica rock e pop. I nostri gusti si dividono in poli estremi che vanno dallo stile più barocco a quello più minimal. Mentre facevamo “Heaven Sent”, abbiamo ascoltato un misto di goth e country classico dei primi anni ’80 (generi che segretamente hanno molto in comune), colonne sonore degli anni ’60-’70, musica da biblioteca, alcuni autori new age americani e giapponesi, ma anche il pop underground, come ad esempio quello di Anna Domino, Kate Bush e Virna Lindt.

– Come vi ha influenzato Boston (la vostra città)?

Conosciamo Boston come una città elegante e tecnologicamente avanzata, iper-costosa e orientata alla vita universitaria. Un gran numero di band provengono dai college e circolano dentro e fuori dalla città ogni 4 anni. Tutto questo crea una scena musicale emozionante ma impermeabile dall’esterno. Le band affermate lottano con affitti impossibili e una generale mancanza di locali in cui suonare. È scoraggiante, tuttavia le grandi band comunque nascono e favoriscono la creazione di un network, questo ci dice molto sulla forza delle persone creative che vivono a Boston e che combattono le visioni degli “amministratori” della città. Va detto che Boston ha anche molte storie ammirevoli di contro-cultura, che ci ispirano a fare musica anche quando può sembrare che ci siano sempre meno incentivi a farlo.

Come volete raccontare i nostri tempi (politicamente) tramite la vostra musica?

La nostra musica non ha messaggi politici evidenti, e la nostra band non si mobilita esplicitamente contro le maree fasciste che sorgono intorno a noi, non ci sono testi conflittuali antiautoritari e così via. Non è il nostro progetto questo.

Tuttavia, siamo coinvolti nel processo musicale che porta, la nostra musica, a propagare stati d’animo di “sinistra”.

I nostri “binari” musicali sono convogliati su determinati stati d’animo che rendono certe atmosfere politiche, come quando parliamo di depressione, delusioni ecc..

Noi vogliamo lavorare su queste emozioni attraverso la musica, non interessandoci molto all’economizzarle e capitalizzarle.

Al tema della politica ci abbiamo pensato più seriamente quando la nostra canzone “Sad Eyes” (2016) è diventata un successo underground associato all’estetica “triste” del web. Perchè ci ha fatto pensare: “che cos’è questo stilizzare, come situazione sociale, il malcontento?” In precedenza eravamo stati accusati anche modo di fare musica troppo “calda” o “fredda”, il che è fastidioso perchè tendiamo a lavorare con atmosfere che si insinuano , in sottofondo, ma non necessariamente provengono da un luogo di intimità idealizzata o di sogni passivi.

Vogliamo un “dream pop” che può nascere da scene inquietanti nella realtà, non neutralizzandola.

– Durante le vostre registrazioni sembra quasi che voi amiate comunicare anche attraverso i respiri o tramite suoni più semplici. Per questo album quali trucchi avete ricercato?

Ci auto-registriamo, spesso, in modo diaristico. Il processo può essere intimo e imperfetto, in pratica facciamo degli schizzi. Cerchiamo di mantenere quel livello di imprevedibilità e dettaglio nel momento in cui facciamo il primo tape. Siamo sintonizzati con gli elementi materici della produzione (ad esempio il sibilo del nastro magnetico, o “tape hiss”). Per noi è una strategia di mixaggio per amplificare i suoni ambientali della macchina, non perché “l’oscuro va di moda” o per puro feticismo, ma solo perché riteniamo che valga la pena preservare il suono delle cose.

– Nel prossimo futuro vi vedremo in Europa o in Italia?

Occasionalmente viaggiamo in Europa, anche se individualmente, non come una band. Considereremo un tour estivo europeo se effettivamente riusciamo a stabilire un percorso che ci eviterà di perdere il nostro lavoro negli USA. Per questo motivo non facciamo nemmeno un tour negli Stati Uniti. Attualmente comunque siamo più propensi ad organizzare un tour europeo che uno americano!

– Avete qualche particolare legame con l’Italia?

Nessun legame particolare. Amiamo il cinema e la musica e vi preghiamo di farci venire direttamente a fare uno show!!