Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 2

Continuiamo e terminiamo il primo speciale sugli Anni ’10: ecco a voi la seconda parte degli album sottovalutati degli anni ’10 (qui potete recuperare la prima parte).


LOUIS COLE, “Time” (Brainfeeder, 2018)

Quando Paolo ha proposto di inaugurare questa rassegna dedicata ai dischi “perduti” del decennio ultimo, la mia scelta è stata sotto certi aspetti particolare: per prima cosa non ho svolto nessun lavoro di recupero, andando indietro con la memoria, ma tra i dischi più sottovalutati di questa decade ho voluto scegliere un album uscito solo pochi mesi fa (più specificamente, lo scorso agosto) e che secondo me ha consacrato su di un piano più pop e accessibile un artista già noto in un ambiente ancora “sotterraneo” e poco considerato dagli addetti ai lavori e la critica come il canale YouTube. Proprio questo è stato il mezzo principale con cui si è fatto conoscere Louis Cole, multistrumentista e soprattutto batterista di una abilità incredibile, istrionico compositore di pezzi neo-soul e funky-jazz con una marcata predisposizione per generi come la disco e dimensioni lounge spaziali a bassa intensità, soprattutto groove di basso e sintesi anni ottanta. In rete e in particolare su YouTube si possono trovare dimostrazioni incredibili non solo delle grandi capacità di questo musicista che ovviamente indossa occhiali da sole e ha la sua base a Los Angeles in California (non poteva essere altrimenti) e che abbina al suo genio musicale una inventiva e una ironia che ne fanno un personaggio assolutamente particolare. Rispetto al primo album nella buona sostanza vengono abbandonate quelle influenze più bossa nova e Beach Boys, un format indie più standard, a favore di irresistibili groove progressive nell’uso delle percussioni e uso di cori accattivanti e ampio uso di vocoder e eco nell’uso delle voci, oltre a sezioni di piano free-jazz. Francamente lo trovo irresistibile, prima o poi il mondo della musica si accorgerà di questo musicista e non sarà mai troppo tardi, perché sicuramente il suo sound sarà sempre all’avanguardia.

(Emiliano D’Aniello)


MACINTOSH PLUS, “Floral Shoppe” (Beer on the Rug, 2011)

Se nella musica degli anni ’10 è successo qualcosa di “completamente diverso”, per dirla alla Monty Python, quella cosa è la vaporwave. A cavallo tra un meme di internet e un vero e proprio movimento artistico, “vaporwave” è un termine che nasce e prende piede nei forum di Tumbrl e Reddit intorno al 2010 con l’intento di etichettare alcune strambe produzioni in cui vengono frullati sample di brani smooth jazz, soul e R&B, new age, musica da ascensore, sigle di telegiornali e jingle pubblicitari, come in un corrispettivo sonoro del Blob di Enrico Ghezzi. A questo potpuorri musicale è stata associata un’estetica che ruota intorno alla nostalgia consumistica di epoche recenti ma percettivamente lontanissime, neanche vissute dalla maggior parte dei fan del genere e forse per questo affascinanti agli occhi di un millennial. L’immaginario di riferimento è quello tecnologico e subculturale del periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, quando c’erano ancora le VHS, i computer erano scatole giganti e Windows 95 crashava sempre, il tutto condito da una fascinazione per le brutte grafiche a bassa definizione, statue greche e anime giapponesi. Come per ogni trend musicale passeggero, da questo movimento è uscita un sacco di immondizia, ma gli album “capostipiti” del genere offrono ancora oggi un ascolto affascinante, passando dal pop ipnagogico di James Ferraro in Far Side Virtual a Chuck Person’s Ecco Jams Vol.1, side project di Daniel Lopatin/Oneohtrix Point Never, fino al disco vaporwave per eccellenza, Floral Shoppe, pubblicato dalla producer statunitense Ramona Andra Xavier nel 2011. Una copertina rosa con un busto greco-romano e le Twin Towers di New York, i titoli dei brani rigorosamente in giapponese e il moniker scelto dalla Xavier, Macintosh Plus, rendono questo lavoro un’enciclopedia degli stilemi estetici e musicali della vaporwave. Lisa Frank 420, una versione “chopped and screwed” di It’s Your Move di Diana Ross talmente rallentata da diventare un’irriconoscibile ed ansiogena litania di 7 minuti, è il brano principale dell’album, rimbalzato ovunque in internet e usato per sonorizzare una quantità assurda di video e meme su Youtube. Uno scherzo mascherato da critica verso il consumismo e meta-ragionamento sulla musica pop degli ultimi 30 anni? Uno scimmiottamento dell’arte del sampling così come la intendeva gente tipo Dj Shadow in Endtroducing…? Qualsiasi sia la risposta, la vaporwave è (stata) il movimento più simile al punk degli anni ’70, dal punto di vista della provocazione e della diffusione di produzioni dal basso, e ascoltare Floral Shoppe ora può rendere un’idea, forse più della trap e del reggaeton, di che casino di periodo stiamo affrontando da un decennio a questa parte.

(Stefano D. Ottavio)


MONEY, “Suicide songs” (Bella Union, 2016)

“I know some of us need it, I know some of us need to turn the light into dark”

Non è masochismo. Non c’è traccia di vittimismo o auto-sabotaggio. Non si parla di quel compiaciuto tormento interiore che la nostra generazione (sì, noi quasi o da poco trentenni) spesso ostenta come se fosse una medaglia, una tessera speciale che regala l’accesso all’esclusivo club degli eterni talenti (agli occhi di chi?) incompiuti, degli animi sensibili, incompresi e un po’ dannati (ci piacerebbe). Quella dannazione che si traduce raramente in esplosione creativa e più spesso in un crogiolarsi in quella seducente terra di nessuno chiamata non-scelta.

No, “Suicide Songs “di Money non parla di questo. Qui c’è disperazione, sì, ma si trovano anche, seppelliti sotto anni di rabbiose sbronze, un briciolo di catarsi, una sorta di appiglio, uno spiraglio di quella cosa che qualcuno chiama consapevolezza, altri comprensione, altri ancora, semplicemente, luce.

O forse mi sono sbagliato. Forse “Suicide Songs” parla proprio a noi trentenni inermi, disperati e compiaciuti. A noi dai vezzi artistici, a noi da “la mia infanzia borghese mi ha rovinato”, a noi intrappolati nei nostri lavori piovutici sulla testa dall’alto, non si sa bene come, quando e perché.

Parla a noi che non siamo qui, a noi che sembriamo un dipinto triste su entrambi i lati del cielo (cit).

Ci dice che l’esplosione è sempre e comunque meglio dell’implosione, che l’arte si fa e non si pensa, che un poeta trentenne, alcolizzato, visibile, esiste, mentre un poeta trentenne, alcolizzato, invisibile, non esiste.

Ben vengano anche le “Suicide Songs”, allora. Purché siano fuori, alla luce.

(Stefano Solaro)

 


MO KOLOURS, “Mo Kolours” (One-Handed Music, 2014)

Quando feci ascoltare a un’amica l’album omonimo di Mo Kolours, era l’agosto del 2014, lei mi disse «si sente che sei in vacanza». E in effetti l’esordio del produttore, percussionista e vocalist per metà britannico per metà mauritano si presentava a prima vista come un album leggero e di facile ascolto, una agile mezz’oretta di brani rapidi tra funk, calypso e ska. Eppure nella sua produzione
stratificata e contorta Mo Kolours non era lontano dalle strutture oggi tipiche dell’hip-hop e del soul di scuola J Dilla, come, da ultimo, il recente notevole album di Earl Sweatshirt. L’originalità dei suoni e dei riferimenti, in apparenza desueti o di nicchia, non deve dunque far scambiare questo album per un prodotto desueto: al contrario, nel suo esordio insuperato, ma ancora oggi, Mo
Kolours rappresentava e rappresenta un’esperienza e una linea originale all’interno di tendenze
consolidate della musica contemporanea. Un album e un autore, per questo, da riscoprire.

(Francesco Marchesi)


PORCHES, “Pool” (Domino Records, 2016)

Ci troviamo nel febbraio del 2016, in quella fase dell’anno in cui l’atmosfera post-natalizia si fonde con qualche breve e impulsivo spicchio di sole. Aaron Maine aka Porches ci delizia con un album particolarmente orecchiabile, non riuscendo tuttavia ad ottenere un successo di critica e di pubblico superiore alla media, in particolare nel filone synth-pop in cui si inserisce. Prodotto dalla Domino Records, “Pool” è capace di creare una solleticante atmosfera neo-noir attraverso il sapiente utilizzo di beat elettronici e ritornelli nostalgici che ben si amalgamano alla voce asciutta e introspettiva di Maine. Provare “Underwater”, “Braid” o “Car” per credere e apprezzare questi 38 minuti di piacevole pop.

(Simone Murgioni)


YUNG LEAN, “Warlord” (Sky Team, 2016)

La tocco piano: parlare della carriera di Yung Lean è come parlare degli Anni ’10. La precocissima carriera del rapper svedese classe 1996 esplosa nel 2013 (ricordate “Ginseng Strip 2002“?) ci ha sempre offerto (o anticipato) l’aria che abbiamo respirato in questa decade, nella sua misura più fresca e giovane. “Rockstar” atipica, sempre un passo di lato ai riflettori, Lean non si tiene lontano dagli eccessi, andando in overdose e passando un periodo di rehab nel 2015. Questa esperienza e tutto quello che l’ha accompagnata, raccontato in una ormai storica intervista per FADER, sono la necessaria chiave di lettura per approcciarsi a “Warlord”.

Il disco, pubblicato al giro di boa di questa decade, unisce gran parte degli elementi estetico-musicali tipici del decennio: batterie sincopate, piattini impazziti, bassoni sub, un avvicinamente all’elettronica HD, uso dell’autotune come componente musical-emozionale. Esiste un pre e un post “Warlord”, rendendolo un punto di svolta nella carriera di uno dei più emblematici artisti degli Anni ’10.

(Matteo Mannocci)


SMITH WESTERNS, “Soft Will” (Mom + Pop Music, 2013)

Se dovessi scegliere una città del decennio individuerei Chicago, perché Barack Obama (lì si è formato) ha davvero segnato le speranze della prima parte degli Anni ’10. E non a caso forse gli Smith Westerns venivano da Chicago, rappresentando una delle ultime possibilità dell’indie e del rock melodico che il mondo non ha colto appieno. Il precedente “Dye It Blonde” (su Fat Possum, 2011) girò di più e arrivò più su nelle classifiche, ma è questo “Soft Will” a rappresentare da un lato il canto del cigno della band (che infatti di lì ad un anno si sciolse) e di certe velleità dell’indierock. Nel solco della tradizione del britpop degli Stone Roses, Teenage Fanclub e Mojave 3, “Soft Will” si riappropria degli arpeggi dei Beach Boys in chiave janglepop e generosamente scrive un manifesto positivo (totalmente disatteso, l’epoca Trump non gode di questo ottimismo) per gli anni a venire. Le melodie adolescenziali, da sempre cifra stilistica degli S.W., qui si fanno definitivamente ariose e aperte, direi quasi disinteressate: noncuranti di quello che verrà dopo, perché chi è ragazzo non si cura del futuro, è felice e basta. Ricordiamocelo, e ricordiamoceli.

(Paolo Bardelli)


TWIN SHADOW, “Forget” (4AD/Terrible, 2010)

Il 2010 è l’anno di “Forget”, debutto di Twin Shadow, all’anagrafe George Lewis Jr. Effettivamente Lewis, sebbene all’esordio, ha già molto da dimenticare: insuccessi, amarezze, passioni rovinose. Un trasferimento nel fertilissimo laboratorio della New York d’inizio Millennio e il provvidenziale incontro con Chris Taylor dei Grizzly Bear assicurano tuttavia all’allora ventisettenne di origini domenicane il terreno vergine necessario per un secondo inizio all’insegna della Gloria. “Forget” è un lavoro che ancor oggi colpisce per l’eccezionale qualità della sua scrittura – non si ascoltano infatti nel disco canzoni meno che eccellenti, a partire da “I Can’t Wait”, “Slow”, “Shooting Holes”, “Yellow Baloon” e “Castles in The Snow”. Ma a catturare è soprattutto la grazia straniante di un suono malinconico, iridescente, dominato da tastiere e beats ottantiani, quasi trasognato. Melodrammi tascabili à la Morrissey, barocchismi wave in punta di synth, vaghissime tentazioni RnB (si accentueranno nella produzione successiva), intessono la trama di un minimo manifesto nu-romantic, che certamente dialoga con le ricerche hypnagogic e retro-pop allora in voga, mettendole tuttavia al servizio di una visione lirica e sentimentale di grandissima forza. A dispetto del titolo, “Forget” resta ancor oggi un disco semplicemente memorabile.

(Francesco Giordani)


HYPE WILLIAMS, “Find Out What Happens When People Stop Being Polite And Start Getting’ Reel” (De Stijl Records, 2010)

Nel 2010 si iniziava a parlare di vaporwave, la dark net rimaneva un mistero ai più ed usciva il secondo album del duo Hype Williams. In principio avvolti da una nube di mistero intorno all’identità dei fautori del progetto, successivamente svelati come Dean Blunt ed Inga Copeland, due musicisti londinesi ai tempi ancora semi-sconosciuti; questo è stato uno dei punti di forza che hanno spinto il progetto a durare ed evolversi sino ad oggi. Find Out è esattamente il tipo di musica che potresti trovare all’interno di un tape in pessimo stato scovato all’interno della vecchia sede di qualche strana agenzia segreta; un pastiche di pop hypnagogico, sample corrotti e stretchati, conditi da sporadiche e ancor più criptiche apparizioni vocali (come nella prima track “Rescue Dawn” in cui Dean B. elenca un’innumerevole serie di pokèmon della Gen1 con voce downpitched).

Questo album insieme ad ECCOJAMS di Chuck Person (Oneothrix Point Never) e Far Side Virtual di James Ferraro formano egemonicamente la base di quel che sarà poi la vaporwave e tutte le sue declinazioni, difatti tutte le caratteristiche sopraelencate non sono altro che gli elementi fondanti di successivi monoliti del genere come Floral Shoppe di Mac Plus; quel che ha fatto spiccare questo prototipo insieme agli altri è proprio l’aura mistica che emanano, l’intangibilità, artefatti virtuali di un passato che infesta ancora il presente come uno spettro che non è presente, né assente, né morto, in poche parole Hauntology.

Find Out seppur con la sua brevità è riuscito a comunicare tutto questo, anche se ha preferito rimanere maggiormente nell’ombra rispetto ai suoi fratelli oramai più famosi, rafforzandone però l’impatto che avrebbe dovuto creare al momento della sua scoperta in rete.

(Duccio Pisoni)