STEPHEN MALKMUS & THE JICKS, “Sparkle Hard” (Matador Records, 2018)

Stephen Malkmus è dei più grandi figli di puttana della storia del rock. Voglio dire, basta guardarlo in faccia. Ogni volta che lo vedo mi vengono in mente quelle facce dei film anni settanta di Bob Altman: Elliot Gould e Donald Sutherland in “MASH”, Tom Skerritt, ancora Elliott Gould in “The Long Goodbye”, George Seagal e sempre Elliott Gould in “California Split”… Alla fine facciamo che mi viene in mente Elliott Gould, quello lì di “Bob & Carol & Ted & Alice”, “Getting Straight”… e la ragione specifica per cui questo succede è che tutti e due in qualche modo (oltre che essere esattamente due gran figli di puttana) con la loro personalità e il loro atteggiamento ti trasmettono quella idea di libertà che poi significa evasione da ogni tipo di schema tanto per quello che riguarda quello “sistemico” che quelli che si possono considerare più tipicamente dei luoghi comuni oppure dei cliché.

Stephen Malkmus è un vero e proprio spirito libero, anzi uno “spiritello” e come tale ha pochi epigoni (forse nessuno) nella storia della musica rock alternative degli ultimi trent’anni e questa sua natura selvaggia praticamente lo rende in qualche modo insensibile al passare degli anni e lo mantiene sempre giovane nello spirito come nel corpo e fa di lui l’unico vero e autentico “Silence Kit” del rock USA. Quindi “Sparkle Hard” (Matador Records) si può considerare solo formalmente come il suo settimo disco solista e il quinto con i Jicks (Mike Clark, Joanna Bolme e Jake Morris) perché in realtà questo LP è il prosieguo di quella storia cominciata all’inizio degli anni novanta e cui simbolicamente nell’ultimo concerto dei Pavement alla fine della tournée dopo “Terror Twilight” (1999) Malkmus si legò per sempre ammanettandosi all’asta del microfono.

Niente di nuovo sotto il sole: “Cast Off”, “Middle America”, “Shiggy” sono dei tipici pezzi nello stile Stephen Malkmus e nei quali i tempi sembrano quasi cadere nel vuoto prima di rialzarsi e farsi trascinare dagli stacchi delle chitarre elettriche; “Future Suite”, “Rattler” (che sembra uscire fuori direttamente da “Wowee Zowee”), “Brethren”, il groove funky di “Kite” e “Difficulties / Let Them Eat Vowels” hanno quella free-form sgangherata che poi hanno cercato praticamente di riprendere un mucchio di band con successi più o meno fortunati (più meno che più in questo caso specifico). Ma non mancano ballads come “Solid Silk” e veri e propri inni come “Bike Lane” e “Refute”, dove fa la sua comparsa anche Miss Kim Gordon.

“Getting Straight” di Richard Rush (1970), già richiamato nella introduzione di questa pagina, fu proposto in Italia con il titolo “L’impossibilità di essere normale”. È impossibile raccontare tutto il film in poche righe, perché significherebbe dovere raccontare la storia di una generazione e la storia di ogni generazione e di ogni singolo individuo che faccia parte di ciascuna di queste e che davanti alla velleità di ogni tentativo di ribellione e agli schemi che gli sono imposti dall’alto, scelga finalmente e semplicemente di essere se stesso. Parliamo di qualche cosa di molto difficile, ma Stephen Malkmus ci è riuscito e continua in maniera sfacciata a ricordarcelo ogni volta. Forse la sua è sfacciataggine. Ma allo stesso tempo è anche una celebrazione della vita.

76/100

(Emiliano D’Aniello)