JON HOPKINS, “Singularity” (Domino, 2018)

Non credo che per iniziare questo articolo ci sia bisogno di tanti convenevoli, quando queste rece sarà uscita immagino che la maggior parte di voi avrà già sentito questo disco. Mea culpa. Sono stato decisamente impegnato, ma al momento in cui scrivo sono felice di non aver buttato di getto 2’000 battute tanto per elogiare il sempre ottimo sig. Hopkins.

Non c’è bisogno di presentazioni, sapete tutti di chi stiamo parlando: Jon Hopkins non è il vostro solito producer di musica elettronica. Il nemmeno 40enne britannico durante la sua carriera ha sonorizzato pellicole, lavorato su piece di danza contemporanea, prodotto i Coldplay e lavorato con un tale Brian Eno. E nonostante tutto questo, penso di poter affermare con sicurezza che “Singularity”, ultima fatica del nostro arrivata a 5 anni di distanza dall’ottimo “Immunity”, sia il suo lavoro migliore ad oggi.

Parole dure, direte voi. E io vi dico invece che immagino che, partendo dall’osservare la maturità della composizione di “Singularity”, i prossimi dischi del buon Jon saranno anche meglio, ispirazione permettendo. “Singularity” è un viaggio di un’ora in cui vengono rimescolati tutti i suoni e le dinamiche che hanno contraddistinto il lavoro quasi ventennale di Hopkins: dal club, all’ambient, dal pianoforte ai suoni che vanno sgretolandosi. Aggiungete un percorso durato anni su meditazione ed alterazione psichedelica. Il risultato di tutto questo è molto di più di un LP di musica elettronica, è il lavoro di un compositore contemporaneo che manipola i suoni in maniera stupefacentemente consapevole.

Jon Hopkins riesce a condensare i momenti di ‘vuoto’ e di ‘pieno’, ‘lento’ e ‘veloce’, ‘melodia’ e ‘rumore’ in un fluire ininterrotto di musica psichedelica nel suo significato di ‘immaginifico’. “Singularity” è un disco che crea. Ogni elemento, pure i vari inserti da dancefloor che pure compaiono in maniera prepotente all’inizio e in chiusura di disco, è pratico alla creazione di un percorso d’ascolto, di sensazioni funzionali ad un viaggio fisico ed emozionale in cui Hopkins vuole portare il fruitore del disco. E non c’è bisogno di distendersi al sole sulle colline dopo essersi calato un acido con l’impiantone per rendersene conto, fidatevi.

Rilassatevi, aprite la mente, seguite la corrente. E siate consapevoli di ascoltare uno dei probabili dischi dell’anno.

87/100

(Matteo Mannocci)