COURTNEY BARNETT, “Tell Me How You Really Feel” (Kobalt Recordings, 2018)

Primo pensiero il giorno dell’uscita: “Tell Me How You Really Feel” è un classico istantaneo. Tutto confermato a distanza di qualche settimana. All’inizio si è apprezzata l’immediatezza e l’ispirazione, mentre ad ascolti più meditati si sono colte anche le altre sfumature di frustrazione che Courtney ha inserito nei testi.

Registrato a Melbourne con Burke Reid, lo stesso produttore che aveva lavorato con lei nel precedente e primo album, “Tell Me…” è il tipico colpo da campione, quello che il giovane pugile talentuoso assesta davanti allo stupore degli astanti. La Barnett infatti si era ritagliata gli onori della cronaca per i due EP al fulmicotone poi raccolti in “The Double EP: A Sea of Split Peas” (2013) e per le esibizioni live contraddistinte da un’elettricità di pancia di un’intensità fuori dal comune. Il suo debut album “Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit” (2015) era un condensato di grandissime promesse, in alcuni punti già mantenute ma senza quelle melodie killer che sembravano lì lì per uscire ma non lo facevano. Poi la collaborazione con Kurt Vile aveva un po’ fatto riconsiderare – ammettiamolo – le aspettative su di lei, perché “Lotta Sea Lice” (2017) aveva annacquato due artisti che, presi singolarmente, sono tra i più rappresentativi di questo decennio ma che evidentemente in coppia si limitavano vicendevolmente.

In “Tell Me…” la cantante-chitarrista australiana diminuisce la verbosità e si asciuga a livello di liriche in modo da poter lavorare di più sulle armonie. Questa volta non mancano i singoli di sicuro impatto: “City Looks Pretty” possiede una facilità di scorrimento che in un altro secolo era prerogativa riservata a gruppi come i Police, “Nameless, Faceless” nasce dalla leggerezza indiepop ma non fa mancare mai l’impatto, “Crippling Self-Doubt and a General Lack of Confidence” ha un ritornello (“I don’t know, I don’t know anything”) che sfido a non continuare a canticchiare in testa una volta terminato il brano. Ma c’è spazio anche per la “disperazione” di “Hopefulessness”, nonché all’inno piuttosto chiaro “I’m Not Your Mother, I’m Not Your Bitch” in cui la Barnett torna alle esplosioni imparate dai Nirvana.

Un disco vario, dunque, perfettamente equilibrato tra spensieratezza, nuvole, autoanalisi, intimità, schiettezza, che si chiude con quel gioiellino che è “Sunday Roast” dall’andamento crepuscolare e dal finale pop. Perciò, Courtney, visto che ci chiedi come stiamo veramente ti rispondiamo senza timori: “Molto bene dopo aver ascoltato il tuo disco”.

85/100

(Paolo Bardelli)