BRUNO BELISSIMO, “Ghetto Falsetto” (La Tempesta/Stradischi, 2018)

Negli ultimi tempi (moderni) osservo un’interessante quantità di produzioni italiane rappresentanti l’incontro tra le nostre recenti tradizioni (prevalentemente fine anni ’70 / primi ’80) e un’attitudine perfettamente contemporanea e internazionale. Non so dire cosa abbiano realmente in comune questi artisti ed escludo che si possa parlare di scena, tanto meno di moda. Questo perché la materia di uno come Bruno Belissimo non è coincidente con quella di Jolly Mare e poi gente come Vincenzo Salvia e Mind Enterprises non vanno nella stessa casella delle pubblicazioni a nome Nu Guinea. Però c’è una linea obliqua che investe questi mondi e li taglia lasciando fuoriuscire abbondanti schizzi di italianità, calore, nostalgia, cinema e certe giornate di España 82. Il tratto epico e quello ritmico sono forse il minimo comune denominatore: il ballo nella sua accezione consacrata, il tg2 nel catodico a pranzo d’estate, l’intensità nella leggerezza (solo apparente) della disco music. Cose di ieri, cose di oggi.

Bruno Belissimo è epica pura, appunto. A partire proprio dal nome del progetto: un nome che evoca radici e partenze, migrazioni e ritorni, storpiature e linguaggi internazionali. Rimanda ad un mondo di cui potrebbe far parte il più visionario dei personaggi di “Bianco, Rosso e Verdone”: sradicato, mutacico prima e dall’idioma impossibile poi.  Sì, perché il riferimento al cinema, se parliamo di Bruno Belissimo è inevitabile. Lo è per diverse decine di motivi, biografici e non. Tutta la sua produzione è potenzialmente soundtrack.  Lo è nei momenti space disco, in quelli tropicalisti e globali, lo è soprattutto quando entra in scena il suffisso -funk. Il suo potrebbe essere sound balearico inteso come negli anni duemila ma anche il tema di un balletto senza tempo con Stefania Rotolo prima ballerina. Qui sta un po’ il nocciolo della questione: album come questo travalicano i confini tra tradizione e contemporaneità. Questo, almeno questo, dovremmo riconoscerlo.

Come il primo album di due anni fa, “Ghetto Falsetto” definisce il marchio di fabbrica del suo autore nella sovrapposizione di strati di sintetizzatori, di basso e di sax. Ma il bassista e producer sa andare anche oltre perché, pur fedele al suo impianto essenzialmente strumentale (e anche per questo cinematografico), stavolta incrementa azzeccati passaggi vocali. Grazie ad un uso coscienzioso del vocoder i pezzi assumono la forma di canzone quel tanto necessario, solo quanto basta. Peccato che in tracklist resti fuori “Handsome Music”, il duetto con Cyen (del duo Yombe), così come nel precedente lavoro era rimasta fuori l’inarrivabile “Infradisco”. Spiccano il già citato primo singolo “Tempi Moderni”, potenziale tormentone dal tiro french e dall’anima latina e naturalmente il viaggio dall’altra parte del mondo de “La Pampa Austral”. Insomma, questo è uno di quei dischi che non intendono fare la rivoluzione ma il patrimonio che coltivano e nutrono risulta poi rigenerato. E una cosa del genere, per come la vedo io, vale più di una rivoluzione.

85/100

(Marco Bachini)