LAURA PALMER’S DEATH PARADE, “Among Us All” (Not On Label, 2018)

Un paio di anni fa feci una chiacchierata con Jesse Valencia dei Gorky, una band power pop di Show Low, Arizona. Jesse stava scrivendo una biografia sui Brian Jonestown Massacre che credo sarà rilasciata a breve su University of Hell Press. Quando gli chiesi come mai avesse deciso di scrivere proprio dei Brian Jonestown Massacre, mi rispose in una maniera che trovai molto interessante, cioè che secondo lui niente secondo quella che si può definire come la controcultura Made In USA degli ultimi trent’anni è stato influente quanto i BJM. A parte “Twin Peaks” di David Lynch. Un punto di vista sicuramente personale e magari criticabile, questo non lo so, però sicuramente una considerazione interessante.

Adesso per quanto mi riguarda (la mia devozione nei confronti dei BJM è indiscutibile) posso dire di essere uno dei pochi che non è mai stato incantato da quello che più che una serie televisiva, è un vero e proprio oggetto di culto e che senza nessuno snobismo, riconosco come tale. Così come mi tolgo il cappello al cospetto di un grande regista e artista tout-court come David Lynch. Però se mi chiedete chi sia stato ad uccidere Laura Palmer, ammetto condidamente che non saprei proprio come rispondere a questa domanda. In compenso tuttavia posso suggerire a tutti l’ascolto di questo disco intitolato “Among Us All” rilasciato per ora solo in formato digitale da questo gruppo di Portland, Oregon che della morte di Laura Palmer ha fatto in maniera romantica e fatalista la propria bandiera.

Parlo dei Laura Palmer’s Death Parade, un terzetto composto dalla vocalist e songwriter Laura Hopkins, il bassista Frederick Ernest e il batterista Benjamin Johnson. Il loro disco è stato registrato al Torch Toucher Recording Studio di Eric Crespo (aka Ghost To Falco) che poi sarebbe anche il producer del disco. Tutte le canzoni sono state scritte da Laura Hopkins: si tratta di una serie di ballate dreamy e cinematiche che possono ricordare quello stesso stile di “Slow Sundown” degli Holy Motors, mescolato a vocalismi degni di Marissa Nadler e atmosfere country western morriconiane su di un tappeto di suoni di chitarra pieni di riverberi e linee di basso incisive e marcate secondo quella corrente wave diffusa sin dagli anni ottanta. A tratti ascoltandolo sembra quasi di finire avvolti dentro una specie di vortice e scossi da un turbinio di inquietudini e visioni allucinate proprio come quelle del cinema di David Lynch, una influenza che travalica il confine artistico di genere e diviene universale e giustifica così l’esistenza e l’uso dell’aggettivo “lynchiano”.

76/100

(Emiliano D’Aniello)