BRAINBLOODVOLUME No. 2

BRAINBLOODVOLUME, la nuova rubrica kalporziana di musica psichedelica, giunge al secondo capitolo. Direttamente da un futuro distopico raccontato alla radio da Orson Welles, il vostro alieno dal “Wild Blue Yonder” Emiliano D’Aniello cerca di guidarvi tra le ultime uscite discografiche cercando di cogliere quelle imperfezioni nell’universo che facciano di noi, che voi respiriate ossigeno oppure siate immersi in un oceano di azoto liquido, ascoltatori “correttamente psichedelici”.
Pace e prosperità.


HELICON, “Helicon” (Fuzz Club Records, 2017)

78/100

Finalmente è stato pubblicato il primo e atteso LP degli Helicon, ensemble di musica neo-psichedelica proveniente da East Kilbride nel Lanarkshire Meridionale, praticamente a 15 km da Glasgow, e attivo sulle scene sin dal 2009. Si parlava effettivamente della pubblicazione di questo disco già da un paio di anni, quando sembrata potesse uscire per la Exag’ Records. Poi la cosa è saltata ma il disco è comunque uscito lo scorso dicembre su Fuzz Club Records. Meglio tardi che mai ovviamente. Anche se il quintetto composto da John-Paul Hughes, Gary Hughes, Mark McLure, Graham Gordon e Seb Jonsen, non aveva sicuramente bisogno di questo LP per fare conoscere agli appassionati di musica psichedelica la loro musica data la intensa attività live e qualche pubblicazione clandestina minore (tra cui l’ultimo LP “Gehenna” uscito nel 2015 propriosu Exag’ Records) che avevano già fatto guadagnare al gruppo le giuste attenzioni.

Il cuore delle composizioni degli Helicon è sostanzialmente composto da una alternanza e una mescolanza di ondate sonore heavy-psych (“Devil On Your Tongue”…) e momenti carichi di suggestioni emozionali in ogni caso sostenuti da una sezione ritmica potente e costante. Sonorità drone dominano inconstrate accompagnate ora da elementi della psichedelia indiana e l’uso caratteristico del sitar (una vera e propria costante nell’album) e ora con espressioni fenomenologiche di carattere acido, fino a rimandi allo stile classico acid-blues di Jim Morrison e dei Doors (“French As Fuck”). Ma tra tutto questo furore, in “Helicon” trovano spazio anche un paio di ballads acustiche e cariche di suggestioni visionarie come “Seraph” e “The Bold Yin” e che sicuramente colpiscono per la bellezza dei suoni e degli arrangiamenti.

Ma definire questo disco come una sorpresa sarebbe comunque sbagliato. In fondo sapevamo già quanto fossero bravi e potenti gli Helicon. È però innegabile che questo disco sia non solo una buona occasione per rimediare a questa mancanza per chi non si fosse mai imbattuto prima nel loro sound, ma anche un nuovo capitolo della storia di questa band che i vecchi ascoltatori non potranno che ricercare e apprezzare grandemente.


DEAD GURUS, “Acid Bench” (Wrong Way Records, 2017)

80/100

I ritorni di grandi band del movimento shoegaze e alternative del Regno Unito tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta come Jesus and Mary Chain e Ride nell’anno 2017, si va ad aggiungere a quelli di Slowdive e My Bloody Valentine, rilanciando in qualche maniera il genere per quello che riguarda la sfera più “mainstream” e popolare dato il grande valore storico di questi gruppi. I risultati di questi rilanci sono stati chiaramente alterni e più o meno convincenti a seconda delle occasioni. Quello che ha deluso molti fan di vecchia data è stata la proposta in tutti i casi di dimensioni musicali meno acide e cariche di distorsioni rispetto a quelli che si possono considerare come i “tempi d’oro” del movimento, che come tutti ha evidentemente bisogno di rinnovarsi con nuovo vigore. Ecco così che per fortuna proprio nel 2017 esce questo disco dei Dead Gurus, praticamente un supergruppo Made in USA capitanato da Jason Edmonds dei Magic Castles e completato da Bennett Johnson, Collin Gorman Weiland (Daughters of the Sun, Dreamweapon) e Ryan Garbes (Wet Hair).

Il disco si intitola “Acid Bench” ed uscito per l’etichetta Wrong Way Records con il mastering di Carim Clasmann, già al lavoro per gruppi come Lorelle Meets The Obsolete, Vacant Lots e Early Years. “Acid Bench” si configura da subito come una ondata prepotente di distorsioni noise e sovraincisioni di riverberi, fuzz e feedback di chitarre elettriche. Determinati momenti del disco rievocano proprio gruppi come i Jesus and Mary Chain combinando l’aspetto noise con quelle suggestioni tipiche del genere (“Mistress X”, “Starlight Sisters”), ma i Dead Gurus si spingono oltre la semplice formula shoegaze con le onde sonore Spacemen 3 di “Vibrations”, il vigore Singapore Sling di “Serpent Fire” e i mantra Dead Skeletons di “Celestial Fuzz” e la lunga sessione di “Black Silk”. Da segnalare la grande bellezza di “Song For Saraswati” che si apre con atmosfere derivate dal misticismo orientale prima di aprirsi in una vortice di ripetizioni kraut circolari e ipnotici.

Un disco che non potrà che essere considerato grandemente sia dagli appassionati di musica psichedelica che dai fan dello shoegaze più selvaggio e tutti quelli che amano sonorità oscure e dense di misticismo Bardo Pond e Dead Skeletons.


THE BAND WHOSE NAME IS A SYMBOL, “Droneverdose” (Cardinal Fuzz, 2018)

75/100

Da Ottawa, Canada, ritornano in pompa magna i The Band Whose Name Is A Symbol, gruppo fondato nel 2008 da Mark McIntyre e John Westhaver (completano la formazione Bill Guerrero, Nathaniel Hurlow, Dave Reford e Jason M. Vaughn) e che ha alle spalle una lunga storia di performance dal vivo e di pubblicazioni di registrazioni effettuate sia durante i concerti (da segnalare un live del 2012 con Damo Suzuki) che in studio e collaborazioni con etichette dedicate alla musica psichedelica come la Drone Rock Records e la Cardinal Fuzz di Leeds in Alabama, USA. Il sound dei TBWNIS si ascrive a quella corrente psichedelica più acida e che si fa risalire agli anni settanta e movimenti come lo space-rock de gli Hawkind che del resto sono probabilmente il principale punto di riferimento di questo ensemble, unitamente agli immancabili rituali di gruppi come i Guru Guru e gli Acid Mothers Temple e in generale quelle ripetizioni e sovraincisioni di suono ricche di phaser e riverberi del kraut-rock. Lo scorso cinque gennaio è uscito proprio su Cardinal Fuzz il loro ultimo disco, “Droneverdose”, registrato per lo più in presa diretta e senza sovraincisioni presso i Raven Street Studios di Ottawa nel giugno 2017.

“Droneverdose” si apre subito in maniera quasi trionfale con “Earworm”, che introduce elementi tipici come la grande potenza e i ritmi sostenuti della sezione ritmica, i tecnicismi della chitarra solista (che ricordano alcuni contenuti tipici del rock psichedelico Made in Japan) oltre il magnificente sound delle tastiere. Dopo i tre minuti suonati a velocità supersonica di “Snorehand”, passiamo a “Gausian Blue / Beach Debris” che con “Tsunami Of Bullshit” finalmente incarna alla perfezione il sound TBWNIS: lunghe sessioni di musica psichedelica acida e in cui la sezione ritmica riprende il motorik tipico della musica kraut-rock, le chitarre divampano in una successione di wah wah e le tastiere spiccano su tutto nei momenti clou e in cui il suono raggiunge i suoi vertici più alti sul piano emozionale. Nel mezzo troviamo una canzone molto particolare (l’unica non registrata esclusivamente in presa diretta) come “118”, introdotta da canti mediorientali su atmosfere drone a bassa intensità e che poi divampa in scariche elettrostatiche ripetitive e che ruotano in maniera vorticosa attorno ad avvolgenti giri di basso fino a bruciare in ritmiche tribali dettate dal battito delle mani e allucinazioni sufi, che sul piano spirituale costituiscono il vero e proprio testamento che questo disco ci lascia in eredità nella ricerca di una armonia sintetica tra anima e materialismo.


THE SUNFLOWERS, “Castle Spell” (Stolen Body/Only Lovers Records, 2018)

74/100

Una proposta tutta nuova nel mondo della neo-psichedelia e che arriva da Oporto, Portogallo (la stessa città de i 10,000 Russos). Si tratta dei Sunflowers, un duo composto da Carol Brandao (batteria, voce) e Carlos de Jesus (chitarra e voce) e sulle scene dal 2014. “Castle Spell” è il loro secondo LP in uscita il 9 febbraio su Stolen Body Records e Only Lovers Records e il primo con cui si presentano a tutti gli effetti al grande pubblico con un tour europeo già fissato per la prossima primavera. Va detto che i due in Portogallo e Spagna hanno già ottenuto una certa notorietà sin dal 2015: si parla di performance dal vivo spettacolari e in cui mostrano tutta la loro attitudine più punk con un atteggiamento sfrenato e lanciandosi sul pubblico e facendo a pezzi i loro strumenti.

La maggior parte delle canzoni sono compposizioni completamente fuori di testa. Molte di queste riprendono quei ritmi sostenuti con improvvise accelerazioni che sono diventati marchio di fabbrica dei King Gizzard & The Lizard Wizard (“Castle Spell”, “Sleepy Sun”, “Monomania”…). Ma “Castle Spell” offre molto di più: canzoni come “The Siren” con riff di chitarra che sembrano quasi schizzare come pneumatici sull’asfalto bagnato e vorticosi riff di basso, lo psych ossessivo Thee Oh Sees oppure Ty Segall di “Signal Hill”, ma soprattutto “Surfin’ With The Phantom”, una specie di mariachi impazzito che sembra uscito dalla colonna sonora di un film di Robert Rodriguez, oppure la schizofrenia multiforme e spastica di “A Spasmatic Milkshake”. Tra una strizzata d’occhio ai Night Beats (“The Maze (Act 1-2)”) e i Dead Skeletons (“Grieving Tomb”), l’opera si conclude con “We Have Always Lived In The Palace”, probabilmente il pezzo migliore del disco che propone un sound garage rock and roll accattivante e poi si conclude con una lunga coda dove facciamo idealmente surf su delle vibrazioni sonore pop psichedeliche, prima della fine e di strappare il biglietto per fare un altro giro.

Nonostante si tratti di un duo, i Sunflowers non hanno un sound solo decisamente potente. Le loro canzoni sono allo stesso tempo divertenti e irriverenti, colorate e marcatamente garage, ma sempre imprevedibili e piene di spunti interessati che sembrano tirare fuori come il classico coniglio bianco da un cilindro senza fondo.


DEAD VIBRATIONS, “Dead Vibrations” (Fuzz Club Records, 2018)

70/100

La Fuzz Club Records apre il 2018 con il lancio del primo LP di questo gruppo proveniente dalla solita florida scena psych di Stoccolma, Svezia. Si tratta dei Dead Vibrations, una band giovane e che era già stata presentata sulle scene con la pubblicazione dell’EP “Reflections” su Echo Drug Recordings e per il singolo “Swirl / Sleeping In Silver Garden”. Il loro disco di debutto eponimo è uscito lo scorso 26 gennaio. Registrato agli Gyroscope Studios di Hagersten, distretto urbano della città di Stoccolma, “Dead Vibrations” è stato mixato da un big come James Aparicio e si compone di sette canzoni. Ha un disco per la verità dalla durata relativamente breve rispetto alla media delle proposte psychedelic-rock dell’etichetta, ma effettivamente il sound di questa band è forse più avvicinabile a certe sonorità shoegaze, confermando quella che già in passato ho considerato essere una apertura della Fuzz Club a una tipologia di suoni più varia e magari più facili rispetto a altre proposte tipicamente drone.

Del resto “Dead Vibrations” è un disco che potremmo ascrivere più a un certo filone shoegaze e dove la psichedelia costituisce chiaramente comunque una delle componenti principali del sound unitamente a certe fascinazioni dark e una attitudine pop sapientemente miscelata tra le sfumature delle distorsioni delle chitarre elettriche. Va detto inoltre che c’è un certo filo conduttore tra tutte le canzoni dell’album e che presentano tutte più o meno gli stessi tratti distintivi, un sound di marca garate, una potente e semplice sezione ritmica e chitarre che suonano in maniera cupa e allo stesso tempo sembrano prima soffocare e poi liberarsi in tutto il loro splendore di feedback, eco e riverberi. La distorsione della voce è chiaramente invece oramai una specie di costante nel genere e cui non si rinuncia in nessun caso.

Si potrebbe quindi forse criticare una certa “piattezza” per quello che riguarda le canzoni di questo primo album dei Dead Vibrations, ma questa potrebbe anche invece costituire un punto di forza per una band e un disco che mi aspetto saranno accolti positivamente dagli ascoltatori e dalla critica in un momento in cui la Fuzz Club Records sembrerebbe avere – come dire – il coltello dalla parte del manico.


STUPID COSMONAUT, “Digitalis” (Drone Rock Records, 2018)

70/100

Formato nel 2016 a Bury nel Lancashire (UK), gli Stupid Cosmonaut sono il progetto di Sam Read e Steve McNamara (completano la formazione Andy Hunt e Mark Hawnt) e “Digitalis” è il secondo disco pubblicato dal gruppo per la giovane etichetta Drone Rock Records. Il primo LP (“Algol”) pubblicato nel marzo dello scorso anno introduceva nell’occasione il tipico sound psichedelico del gruppo e che trae concettualmente ispirazione dalla fantascienza e che si propone come la colonna sonora ideale per film del genere appartenenti all’era della guerra fredda e in cui il mondo era ancora diviso in due parti. Da questo punto di vista le scelte musicali derivate da esperienze come il kraut-rock di Tangerine Dream e Klaus Schultze e la musica ambient minimale di Brian Eno si sono rivelate efficaci nel conferire un carattere anche visuale alla loro musica, anche grazie a un certo recupero di sfumature post-rock di Mogwai e Explosions In The Sky.

Queste caratteristiche in qualche modo costituiscono una specie di “unicum” nel microcosmo della musica psichedelica e il nuovo disco non solo conferma tutte queste sensazioni positive, ma è anche l’occasione per il gruppo di spingersi ancora oltre. Con “Digitalis” infatti Sam Read e Steve McNamara varcano ancora le soglie spazio-tempo del mondo della fantascienza e ambientano il nuovo disco in una dimensione distopica e dominata da sonorità sintetiche sperimentali. Lunghe sessioni di musica ambient minimalista e space rock producono onde sonore e riverberi ricchi di suggestioni drone e che si sovrappongono tra di loro configurando paesaggi sfumati acidi e dove la psichedelia si combina ancora una volta con quell’orientamento cinematico tipico del post-rock.

Siamo effettivamente davanti a un disco che si colloca in una posizione di mezzo tra la psichedelia e altri generi musicali, una caratteristica forse anche dovuta proprio alla volontà di superare dei confini segnati dalla maggior parte delle produzioni di musica neo-psichedelica proveniente dal Regno Unito in questa precisa fase storica e che nel recupero di tradizioni del passato cerca un nuovo slancio verso il futuro.


DEAD SEA APES, “Recondite” (Cardinal Fuzz/Sunrise Ocean Bender Records, 2018)

85/100

Penso che nonostante la relativa poca popolarità al di fuori del circuito neo-psichedelico, i Dead Sea Apes di Manchester siano uno dei gruppi migliori del genere e in generale una delle realtà musicali più potenti provenienti dal Regno Unito in questi ultimi anni. Il 2017 per il trio composto da Brett Savage, Chris Hardman e Nick Harris è stato un anno particolarmente proficuo con la pubblicazione del loro quarto LP “Sixth Side Of The Pentagon” e il 12″ giri “In The Year 2039” realizzato con lo scrittore e attore Adam Stone. Praticamente un monologo distopico di venti minuti ambientato nell’anno 2039 d.c. e in cui viene descritta la Terra dal punto di vista di un alieno senziente con elementi tratti dalla fantascienza classica e speculazioni di carattere politico inquietanti e musicate in maniera oscura dal trio di Manchester: un evento che ha costituito un vero e proprio happening in apertura a un concerto nel Derbyshire nel settembre 2016. Una specie di “War of the Worlds” di Orson Welles 2.0.

Ritornati al tempo presente i Dead Sea Apes pubblicano il 5 febbraio questo doppio LP su Cardinal Fuzz e Sunrise Ocean Bender che raccoglie materiale inedito registrato dalla band nel corso di questo ultimo periodo. Il disco si apre peraltro proprio con un brano con la partecipazione dello spoken-word di Adam Stone (“Tentacles”) e che si conforma al sound delle ultime produzioni del terzetto che si compongono di lunghe session dub acide e costruite su vigorosi giri di basso degni di Jah Wobble e allucinazioni PIL e che si pongono nel mezzo tra sessioni sperimentali (“Rethreads”, “Lupine Wavelength”) e attitudine garage. Altrove il suono del basso è accompagnato da suggestioni drone e introduce quelle che sono vere e proprie esplosioni di suono heavy-psych e atmosfere cariche di tensione (“True Believers”, “Universal Translator”, “Vamos Companeros”) oppure sessioni di rock acido con suggestioni cinematiche (“Coronal”, “Planet V”). Da segnalare le cover di “Ruckstoss Gondolière” di Florian Schneider inclusa nel disco “Tone Float” degli Organisation e “Vamos Companeros” degli Harmonia. Ma la vera perla probabilmente è “Land Of The Sun” di Alexander “Skip” Pence (1946-1999) (Moby Grape), musicista anche nel giro dei Jefferson Airplane ma afflitto da problemi di schizofrenia, droga e alcolismo e per molti anni costretto a stare lontano dalle scene.

Nel formato digitale la pubblicazione è arricchita di altre tre tracce (due remix e un live al Trades Club di Hebden Bridge), che potrebbero nel caso arricchire ancora di più i contenuti di questa meravigliosa raccolta. Definirlo un best-of oppure materiale di scarto ha poco senso in entrambi i casi: “Recondite” è sperimentale, avvolgente, ossessivo e allo stesso tempo veramente espressione di controcultura come poche altre cose nel giro della musica alternative. Prendere o lasciare in questo caso è una domanda priva di senso.

(Emiliano D’Aniello)